Athena, di Romain Gavras: magma incandescente sotto i piedi delle G2

“Vado a combatte’n Francia.

Ho perduto la libertà.

(…)  La mejo gioventù tutta la voi.”

Ti riecheggia la voce di Gabriella Ferri alle parole dell’autorità, nella prima scena di Athena, terzo lungometraggio di Romain Gavras.

C’è il fratello–militare del ragazzino ucciso (apparentemente dalla polizia) che sta implorando i giovani del quartiere fortezza degradata, a stare fermi, a non intralciare le indagini, a desistere dagli attacchi contro la polizia e consentire di trovare i responsabili dell’omicidio al più presto. C’è l’autorità che, parlando agli stessi microfoni, ricorda quanto questa famiglia di origine algerina abbia dato alle guerra di Francia andando a combattere, per la Francia, per generazioni. E c’è l’altro fratello, il capo della rivolta, al quale queste parole fanno da innesco. Ha una molotov ben stretta in mano e la lancia contro il commissariato. Il segnale di guerra è dato.

E’ l’esplosione del magma di rabbia trattenuto che sta ribollendo alle radici di queste seconde generazioni.

E’ guerra. Quella in cui non si capisce più chi è chi. Tutti sparano a tutti. Ribelli ai ribelli, la polizia al poliziotto ostaggio rilasciato.

È tutti contro tutti. È scontro civile. È furia irrefrenabile. È tragedia e vendetta cieca.

L’impianto della tragedia greca classica è il registro del film.

L’Athena di Gavras, ha un inizio narrativo spettacolare. E’ un crescendo velocissimo, il piano sequenza di 12 minuti da premio, adrenalina pura, il drone sul clamore del caos della contestazione capace di portarti a riconoscerti dentro la scena con la perizia del game designer, tutto accade rapidamente. Sapiente melting pot dei diversi linguaggi video.

E, purtroppo, si arriva troppo presto all’acme narrativo.  Si rimane in uno stato esagitato, in un’apnea forzata per cercare di restare nel ritmo, nel fiato, aspettando ciò che dovrà seguire.

Tempi da videoclip per scelta? In effetti, il dubbio sorge quando questa correità a stare al gioco di colpo ti disinnesca dall’immedesimazione e ti estranea dal congegno caotico. Inizi a vedere la storia fuori della fiction.

E, così, quelle che sarebbero sembrate senz’altro pecche di sceneggiatura, errori nei tempi, di ritmo, errori che penalizzerebbero la verosimiglianza della storia, assumono una funzionalità strumentale. Richiamare lo spettatore all’attenzione.

Errori di narrativa che, per altro, non si avvertono negli altri due lungometraggi di Romain Gavras. In Le monde est à toi  è troppo evidente la pasta da BlackMagic che non tutti i cinefili amano, e nemmeno gli addetti ai lavori più schifiltosi, la durezza troppo a fuoco del drone, ma si potrebbe anche obiettare che, nonostante sia un regista ben avvezzo a dosare i requisiti da videoclip, in questo altro genere, non si aggrappa facilmente alla fune estetica; e tantomeno in Notre Jour Viendra, in cui è riconoscibile una certa influenza del bel fumetto noir, a cui ben si attagliano i lineamenti di uno straordinario Vincent Cassel, sempre in prima linea, soprattutto in questo ambito specifico, a sostenere l’attivismo sociale, politico e civile di giovani registi, o un collettivo di musicisti indipendenti e vivaci come La Caution, che proprio grazie a Cassel entra nella colonna sonora di Ocean’s Twelve con la tempestiva Thé à la Menthe del 2005.

“Originaire d’Algerie d’Hollywood à Tamanrasset.
Plus de thé a la menthe juste des palabres amères.
…..
Pour quelques douze de plus y a des carnages dans l’air.
Cette France me désintègre.

L’unico errore vero da imputare a Gavras in Athena sembra consistere nell’esodo finale, una risoluzione fuori tempo, quando il racconto non ha più via d’uscita, tanto en passant da risultare una rivelazione ormai inutile per lo spettatore.

E Athena si conferma un altro lavoro di quel cinema di denuncia, ambientato nelle banlieue parigine, vero e proprio filone dei giovani registi politicamente impegnati e attivisti dei diritti umani e sociali, tanto che talvolta sembrano seguitarsi in una staffetta incessante. Athena inizia dove Les Miserables di Ladj Ly (qui co-sceneggiatore) finisce, nel quartiere dell’edificio-dormitorio in cui i poliziotti venivano serrati sulla scalinata nella rappresaglia dei giovani guerriglieri.

Romain Gavras, dunque, altro engagé del filone, da cotanto padre  (che tra gli ultimi lavori ha sceneggiato anche Mon colonel del 2006 di Laurent Herbiet, in cui con colpo d’occhio trasversale riconnettiamo  “Il colonnello è morto a Saint-Arnaud”, al proemio della storia in corso)  ha ciucciato in fasce il cinema di denuncia e impegno politico, e già nel ‘94 fonda insieme a Kim Chapiron , Kourtrajmé,  dapprima collettivo artistico e oggi società di produzione cinematografica a tutti gli effetti e scuola di cinema sostenuta, manco a dirlo, da Cassel e Kassovitz, oltre al rapper Oxmo Puccino (fratello del cestista Mamoutou Diarra), Alex Manenti e altri.

Leitmotiv di Romain Gavras è sempre lo stesso, in tutti i suoi lavori: se non hai né patria, né popolo, né esercito, né lingua, non hai nulla da perdere. E niente da prendere.

Athena restituisce un condensato emozionale pieno dei sentimenti di rancore, rabbia e vendetta che la geopolitica del colonialismo imperialista ha fatto assommare nella durata di un intero secolo. Dalle guerre combattute per la Francia dai coloni, uno per tutti, la paradigmatica biografia di quel Abdesslem raccontato dalla matita di Piero Macola nel suo Le tirailleur del 2014 per Futuropolis; la rabbia ingoiata dai nonni oltraggiati da una Vichy a stelle e strisce e da la trahison di De Gaulle e che, passando per la ribellione repressa dei genitori negli anni ’60, è arrivata ai nipoti come eredità di vendetta.  È polaroid di una Francia che ora è un non-luogo, non più credibile ormai come promulgatrice del malconcio manifesto di inclusione perché non ha più posto per nessuno. E non soltanto per le minoranze, o per gli immigrati.

Queste seconde generazioni sono consapevoli di essere pur sempre i pronipoti di quell’Algeria combattente, in cui “l’onore, il dono di sé, l’amore per la vita, lo sprezzo della morte potevano assumere forme straordinarie.” (Frantz Fanon)

La Francia di oggi, che ha accresciuto muscolosamente la disparità, fa riecheggiare da lontano la memoria di un Fernand Iveton, uno di quei pied-noir, figli di genitori francesi ma nati nelle colonie, uno che ha creduto nella giustezza della causa di liberazione dei fratelli algerini fino a scontare con la vita l’implacabile vendetta dello stato carnefice, la storia di un uomo che è diventata emblema delle atrocità dei crimini della vergognosa giustizia del ministero Mitterand.

Nella Francia di oggi, come è fortemente accentuato in questo filone cinematografico, i figli e i nipoti di chi ha fatto la scelta di essere “immigrato” sono le prime vittime del senso di appartenenza. Il loro vivere in un limbo, estranei al sentimento naturale di “appartenere”, cioè di far parte di un organismo in cui poter essere “con altri”, avere radici, costumi, lingua e valori comuni.

E allora lo spazio in cui essere “appartenenza” diventa l’impegno verso un concetto alto, la ricerca della Verità, perché “non si è mai soli quando si crede nelle cose vere” (Van Gogh a suo fratello).

Possiamo continuare a perdere il fiato all’infinito dietro allo stato di fatto, ma forse è arrivato il momento di alzare l’asticella della nostra consapevolezza, toglierci il paraocchi dell’ingenuità e capire che lo slogan della rivoluzione francese Liberté, Égalité, Fraternité, diventato poi motto della Repubblica francese da incidere sugli edifici pubblici e poi da inserire nel 2° articolo della Costituzione, non ha a che fare con gli Stati e con il loro governo politico. Non possiamo ancora aspettarli dalle loro mani, come fosse elargizione, perché non sono i governi che possono garantire questi diritti.  Essi sono insiti nella posizione naturale, lo stato di diritto per nascita dato da Dio a tutti gli uomini. Nessun uomo lo può dare o togliere, appartiene a Dio. Essere consapevoli di appartenere a Dio, questo ci fa essere intoccabili, liberi, uguali e fratelli.

E ogni uomo che rivendica per se stesso questo stato di diritto per nascita, al tempo stesso, lo rivendica e mette in pratica anche per il suo prossimo.