Tra mito e realità: esplorando la tragedia della Palestina con lo storico Ilan Pappé

Alla fine del primo capitolo del suo fondamentale saggio, fondamentale per capire la storia tormentata del popolo palestinese, intitolato La pulizia etnica della Palestina, tradotto ed edito in Italia per i tipi di Fazi Editore, Ilan Pappé, storico ebreo, nato e vissuto in Israele, così scrive:

Immaginate che non molto tempo fa, in un qualsivoglia paese a voi familiare, metà dell’intera popolazione sia stata espulsa con la forza in un solo anno, la metà dei paesi e dei villaggi cancellati, lasciando al loro posto solo mucchi di macerie. E ora immaginate che sia in qualche modo possibile che questo accadimento non venga mai riportato nei libri di storia e che ogni sforzo diplomatico per risolvere il conflitto scoppiato nel paese, metta da parte, quando non lo ignori del tutto, questo evento catastrofico.

Già, proviamo a immaginare che una storia come quella, sia capitata a noi italiani, iniziata magari con l’arrivo di non meglio identificati immigrati. Immigrati che arrivano dapprima discretamente, e comprano terra da ricchi proprietari terrieri residenti altrove, spesso all’estero, ben felici di sbarazzarsi di terreni di cui non hanno molta voglia di occuparsi, senza troppo sottilizzare sul prezzo. Altri si installano soprattutto nelle città e formano comunità chiuse, con scarsi contatti con gli indigeni italiani, che considerano sostanzialmente esseri piuttosto rozzi, che in cuor loro disprezzano, con i quali non amano mescolarsi, men che mai contrarre matrimoni misti.

Quei nuovi arrivati che hanno acquistato proprietà fondiarie, prendono possesso dei terreni e poi, per prima cosa licenziano i fittavoli e i braccianti che vi lavorano per sostituirli con personale della propria etnia e religione. E questa comunità giunta da paesi lontani, che parla una lingua ignota, che si muove, pensa e respira in un mondo tutto suo, pur rimanendo assolutamente minoritaria, tuttavia cresce, acquista altri terreni e case nei centri urbani, e si introduce sempre più in profondità nel commercio e nel sistema finanziario locale, e poi addirittura, quando ancora non rappresenta neppure il dieci percento del totale della popolazione, il primo ministro di una grande potenza straniera dichiara, scrivendolo nero su bianco, che gli immigrati stabilitisi nel nostro bel paese hanno diritto a un focolare nazionale in Italia. Però gli indigeni, si noti la finezza, gli indigeni, non gli italiani, avranno comunque, bontà sua, garantiti diritti religiosi e civili, ma di diritti politici e nazionali non si parla.

Da quel momento in poi gli alieni, perché tali sono, cominciano a sgomitare pesantemente, un po’ come -avete presente?- fa il pulcino del cuculo che la madre ha deposto in un nido non suo, e la storia continua fino a che gli italiani se ne dovranno andare altrove, perché chi rifiuta di andarsene viene fatto prigioniero, spesso torturato, violentato, ucciso, non importa se uomo, donna o bambino; e le case sono distrutte, le città, svuotate dalla loro presenza, sono ora abitate solo dagli alieni, e i paesi e i villaggi, dopo l’espulsione e a volte dopo il massacro degli abitanti, vengono quasi tutti distrutti, al loro posto sorgeranno insediamenti alieni, oppure dove prima intorno ai villaggi c’erano uliveti, si pianteranno foreste di pini, e verranno creati parchi naturali e ricreativi, molto ecologici, per la nuova popolazione, senza che di quanto vi esisteva prima ci sia più alcun ricordo..…

Ora possiamo svegliarci da questo sogno diventato incubo, perché grazie a Dio questa non è la storia del nostro paese, ma la storia della Palestina, terra che comincia a ricevere i primi ebrei, provenienti in maggioranza da paesi dell’Europa orientale, ma anche dai paesi arabi confinanti, fra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.

Li spinge laggiù un’ideologia, Il sionismo, il cui maggior teorico e fondatore fu un ebreo ungherese di lingua tedesca, Theodor Herzl (1860-1904). Abbiamo usato il termine ideologia non a caso; perché assolutamente ideologiche, se non mitiche, ne sono le basi teoriche, e cioè in primis, che agli ebrei, sparsi nel mondo intero, spetti di diritto il ritorno e il possesso di quella terra, la Palestina, con la sua capitale Gerusalemme, divenuta nei numerosi secoli precedenti, città di importanza fondamentale, oltre che per l’ebraismo, anche per il cristianesimo e per l’Islam, dalla quale se ne dovettero andare nel 70 dopo Cristo perché dispersi dalle legioni romane dell’imperatore Tito.

Da allora, da quando i primi immigrati giudei cominciarono a mettervi piede, erano trascorsi quasi due millenni e nel frattempo, quella terra, lungi da essere secondo il mito sionista un deserto scarsamente abitato e desolato, era diventata la patria di una popolazione, quella palestinese, a maggioranza islamica, ma con una molto importante comunità cristiana e anche con la presenza di piccole comunità giudaiche. Musulmani, cristiani, e anche ebrei autoctoni, che fino a quel momento per lunghi secoli avevano pacificamente vissuto insieme. Fino a quel momento.

Il 2 novembre del 1917, il ministro degli esteri inglese, Arthur Balfour, (1848-1930), su pressione della lobby sionista, sottoscrive una dichiarazione ufficiale, diretta all’ebreo lord Rothschild (1868-1937), nella quale si afferma che la Gran Bretagna si impegna a sostenere la creazione di un focolare nazionale ebraico (a national home for the Jewish people) in Palestina, ma che nulla sarà fatto che pregiudichi i diritti religiosi e civili delle esistenti comunità dei non-ebrei. Dunque per coloro che non hanno la fortuna di essere nati ebrei, i non meglio definiti non-ebrei, ci si impegna a difendere diritti religiosi e civili, però non si riconosce loro alcun diritto nazionale o più generalmente politico.

Da notare che al momento della dichiarazione Balfour, gli ebrei presenti in Palestina non superano il 10 per cento della popolazione e non occupano più del 6 per cento del totale delle terre.

La presenza ebraica aumenta a dismisura negli anni trenta del secolo scorso; ad ingrossarla in modo esponenziale è l’arrivo di grandi masse di rifugiati ebrei ashkenaziti provenienti dai paesi dell’Europa orientale e dalla Germania dove il nazismo al potere li perseguita, ma ne incentiva anche, con l’evidente scopo di liberarsene, l’immigrazione in Palestina.

In quegli anni la presenza ebraica in Palestina, pur restando assolutamente minoritaria, raggiunge quella massa critica che sarà necessaria per far sì che nel 48 l’organizzazione militare sionista, le milizie dell’Haganah e dell’Irgun, possa procedere a quella pulizia etnica brutale e radicale che porterà all’espulsione dalla terra palestinese più della metà della popolazione autoctona e alla distruzione o alla rapina delle sue terre e dei suoi beni.

Il 29 novembre del 1947, l’ONU, nato solo un paio d’anni prima, con tutta probabilità su pressione della lobby ebraica e per la volontà di compensare gli ebrei per quanto subito nella seconda guerra mondiale appena terminata, con la risoluzione 181, divide la Palestina storica, con l’eccezione della Cisgiordania, in due parti più o meno uguali, e assegna la parte più ampia e più fertile allo Stato sionista, anche se gli ebrei in quel momento sono solo un terzo del totale della popolazione e possiedono solo una piccola parte del terreno disponibile.

Secondo un mito piuttosto accreditato, ma assolutamente falso, i palestinesi avrebbero rifiutato la gentile concessione delle Nazioni Unite, non per l’evidente ingiustizia di quella risoluzione, ma lo avrebbero fatto in previsione dell’arrivo delle armate arabe che soccorrendoli, avrebbero anche cacciato del tutto i sionisti. Falso. Addirittura fu fatta circolare la fiaba secondo cui i sionisti avrebbero pregato i palestinesi di non andarsene. Le armate arabe intervennero a 1948 inoltrato, svogliatamente e quando metà dei palestinesi erano già stati espulsi dai loro villaggi e dalle città, come Giaffa o Haifa, nelle quali fino a quel momento avevano vissuto e abitato.

L’Haganah e l’Irgun, cioè il braccio armato della nascente entità statale sionista, procedettero ad una brutale pulizia etnica, costellando le loro imprese con vergognosi massacri di civili palestinesi, di cui il villaggio di Deir Yassin non costituisce l’unico doloroso e tragico esempio, perché i massacri ingiustificati di civili furono numerosi.

Anche quando i sionisti non si dedicarono al massacro indiscriminato dei civili, una volta conquistato un villaggio palestinese, esattamente come avrebbero fatto i serbi una quarantina di anni dopo nella ex Jugoslavia, nel Kossovo e in Bosnia, radunavano la popolazione nella piazza principale; separavano donne e bambini, dagli individui di sesso maschile con un’età compresa fra i dieci e i cinquant’anni, e con l’aiuto di un delatore opportunamente incappucciato, sceglievano quelli considerati più pericolosi e li fucilavano.

Da allora la Nakba, cioè l’espulsione forzata dei palestinesi dalla loro terra, nonostante l’articolo 11 della risoluzione ONU 194 del dicembre del 1948 che impone il ritorno dei profughi alla loro terra o comunque una compensazione, è stata sempre, et pour cause, direbbero i francesi, ignorata da Israele.

Il ritorno legittimo dei profughi alle loro case è inaccettabile per Israele, e anche impossibile materialmente perché queste proprietà, queste case, non esistono più, al loro posto sorgono le foreste di pini di cui si è detto che hanno soppiantato gli uliveti, o Kibbutz israeliani. E poi lo Stato ebraico non può accettare che popolazioni non ebraiche possano mettere in pericolo il carattere etnico dello Stato. Israele, questa “unica democrazia del Medio Oriente”, è uno Stato etnico, la cui esistenza si basa su una discriminazione razziale di base, e non può accettare, pena la sua scomparsa, che questo carattere razziale venga messo in discussione.

Potremmo continuare a raccontare questa dolorosa e tragica storia, ma preferiamo che lo facciano le struggenti pagine di questo imperdibile libro.

Raccomandiamo a tutti la lettura del saggio di Ilan Pappé, magari anche a quella pletora di politici e giornalisti che in questi tragici giorni di Gaza si sono riempiti la bocca col mantra che “Israele ha diritto a difendersi”. Dopo averlo letto, se vorranno, nonostante tutto, continuare a ripeterlo, saranno sostenuti solo dalla malafede e non anche, come adesso, dall’ignoranza.