Lo storico Walid Khalidi e quei 418 villaggi palestinesi cancellati dalla furia sionista

Sono questi giorni in cui ancora una volta, e purtroppo in modo incredibilmente drammatico, la questione palestinese torna alla ribalta. La triste e macabra conta delle vittime ha ampiamente superato le trentamila unità. Una parte dolorosamente considerevole di questi esseri umani uccisi dai terrificanti bombardamenti israeliani sono bambini, tra questi, non pochi sono morti per fame, la fame a cui sono stati costretti dal feroce e spietato assedio sionista alla striscia.  

I grandi media e gran parte della politica italiana si sono schierati a fianco di Israele adducendo a giustificazione dell’inaudito massacro la tesi secondo cui lo Stato sionista starebbe semplicemente esercitando un suo supposto legittimo diritto alla difesa. Di fronte all’enormità di quanto sta accadendo sotto gli occhi del mondo a Gaza, il giudizio si è leggermente modificato. Ci dicono che forse gli israeliani stanno calcando un po’ troppo la mano, ma altro non hanno fatto che rispondere al feroce attacco dei terroristi di Hamas che ha causato più di un migliaio di vittime israeliane. Eh già.

E così non c’è talk show televisivo, non importa su quale rete,  dedicato all’argomento, talk show che sono stati dall’otto ottobre ad oggi molto numerosi, in cui non si senta uno qualsiasi di quella autentica legione di sostenitori del “diritto di Israele a esistere e a difendersi” giustificare l’azione genocida dello Stato sionista- ma guai a definirla tale- asserendo che la causa di tutta questa tragedia va addossata totalmente ad Hamas e all’attacco del sette ottobre, e che le vittime civili sarebbero sempre opera di Hamas che usa i civili come scudi umani. Come se ci fosse bisogno di scudi umani in un piccolo territorio abitato da oltre due milioni di uomini, donne, vecchi e bambini, dove, come se grandinasse, cadono micidiali bombe dal cielo.  

Costoro dimenticano, o fingono di dimenticare, che il sette ottobre non nasce dal nulla. Lo precede una storia lunga e dolorosa di oppressione e di ingiustizia che ha un inizio lontano nel tempo. Il sionismo come ideale nasce con Theodor Herzl alla fine  del diciannovesimo secolo, e i primi, apparentemente innocui, insediamenti ebraici in Palestina si situano tra la fine del diciannovesimo secolo e i primi decenni del ventesimo. 

Quei primi singolari insediamenti si sono nel tempo espansi come un cancro in maniera incontrollabile, fino a raggiungere, dopo la fine della seconda guerra mondiale, grazie ad un’immigrazione massiccia, organizzata e promossa dalle centrali sioniste, soprattutto dai territori dell’Europa Orientale, una massa critica corrispondente ad un terzo della popolazione totale residente nella Palestina storica.

Alla comunità ebraica, cioè come si è detto, un terzo della popolazione residente in Palestina, nel novembre del 1947, quindi a soli due anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la risoluzione ONU 191 assegna, non si capisce bene in base a quale criterio, metà del territorio, la parte migliore. 

Il 15 maggio del 1948 scade il mandato britannico sulla Palestina e in quella data ufficialmente, ma in realtà la macchina bellica sionista era già da tempo bene oliata e in movimento, ha inizio quella guerra arabo-israeliana che i sionisti chiameranno “guerra di indipendenza”, e gli arabi palestinesi, Nakba, cioè catastrofe. 

L’Haganah e l’Irgun, le due principali unità militari del costituendo Stato di Israele, armatissime e molto bene addestrate, scatenano nella primavera del 48 una guerra spietata volta alla conquista di tutta la Palestina, contrastate con scarso successo da unità di difesa di volontari arabi e dopo il 15 maggio dall’intervento degli eserciti di ben cinque stati arabi, e cioè, Iraq, Siria, Egitto, Libano e Giordania. 

L’intervento militare dei cinque paesi arabi oltre ad essere tardivo e malamente coordinato, insieme all’esito del conflitto per loro disastroso, darà la possibilità ad Israele e ai suoi numerosi e potenti corifei nei media, di dare vita ad un mito duro a morire: quello del nuovo Davide che abbatte il potente ma ottuso Golia; quello di un popolo audace e intelligente, gli ebrei immigrati, capace di mettere in ginocchio un nemico molto più potente ma molto scarso intellettualmente, e tendenzialmente amante dell’ozio. Mito con un sottotesto razzista piuttosto evidente che vorrebbe raccontare di una supposta superiorità intellettuale degli ebrei su tutti gli altri popoli del mondo, ma soprattutto sugli arabi; che racconta di un popolo, quello degli immigrati ebrei in Palestina, giunto in una terra desertica ma che grazie all’ intraprendenza e intelligenza della sua gente diverrà un florido giardino. 

Sono miti. La vittoria i sionisti la ottengono soprattutto grazie ad una schiacciante superiorità di mezzi e di armi. L’Haganah è stata negli anni e nei mesi che precedono la guerra, rifornita delle armi più potenti e moderne disponibili all’epoca, i suoi quadri hanno tutti ricevuto un’istruzione militare di prim’ordine. Il grande storico palestinese Walid Khalidi scrive nella sua opera sulla guerra arabo- israeliana del 48 che le cinque armate arabe messe insieme, per armamento e addestramento, non valevano la metà della forza dell’Haganah, cioè dell’esercito israeliano. 

L’altro mito diffuso a piene mani sulla Palestina narra di una terra scarsamente popolata e semidesertica che altro non aspettava che di essere colonizzata e riportata a nuova vita da un’immigrazione europea attiva, intraprendente e intelligente. Questo è il mito paradigmatico che sta alla base di ogni impresa coloniale, nessuna esclusa: dalla colonizzazione con relativo genocidio dei nativi del nord America, fino alle imprese italiane in Libia e nel corno d’Africa, passando per l’Algeria francese e il Congo belga e per tutte le altre numerose storie di oppressione di popoli vittime della volontà di potenza altrui. 

La Palestina non era un deserto che poi i sionisti avrebbero trasformato in un giardino fiorito. Era una terra in gran parte fertile, affacciata sul mar Mediterraneo, che godeva e gode di un clima mite, dove esisteva un popolo dedito all’agricoltura, alla pastorizia, al commercio, alla pesca e all’industria; un popolo che sarebbe stato derubato, spogliato di ogni diritto, condannato ad un doloroso esilio che dura tutt’ora. 

Lo storico citato prima, Walid Khalidi, ha scritto un libro intitolato nella traduzione inglese, All That Remains (Tutto ciò che resta); un libro di storia molto speciale. Purtroppo quest’opera non è stata ancora, e forse non sarà mai, tradotta in italiano; ed anche nella sua versione inglese non è facile procurarsela. Ed è davvero un peccato. 

Non è un’opera storica convenzionale. Non vi si narra una sequenza di scontri, di battaglie; non vi si narra di questo o di quell’illustre condottiero o uomo di stato. All That Remains è come una speciale Antologia di Spoon River, l’opera di Edgard Lee Masters, in cui l’autore dà voce ai defunti di un’immaginaria cittadina rurale americana. Solo che, nel libro di Khalidi, a parlare non sono esseri umani trapassati che per artificio poetico ritornano in vita e raccontano con nostalgia dolente i fatti, i sentimenti, le gioie e i dolori della loro esistenza.

A raccontare la loro storia, grazie a Walid Khalidi, sono ben 418 villaggi palestinesi che esistevano e pulsavano di vita prima del 1948 e che ora non sistono più. Al loro posto restano per lo più macerie, rovi. A volte lo stesso ricordo di quella comunità umana è stato completamente cancellato da un insediamento israeliano, da un kibbutz. La vecchia moschea, o la vecchia chiesa sono state trasformate in un deposito di attrezzi agricoli, a volte in un museo. 

La casa che appartenne al capo villaggio, è ora la residenza di una famiglia di ebrei immigrati magari dalla Russia, o da qualsiasi altro paese del mondo. Di ogni villaggio viene raccontato quello che era prima del 48, con il numero dei suoi abitanti, divisi per appartenenza religiosa – i musulmani sono di gran lunga i più numerosi, ma non mancano cristiani e drusi.

Ci vengono poi indicate le attività principali, le coltivazioni, il tipo di abitazioni; insomma, ci viene fornita un’immagine viva di quello che era stato il villaggio. In un capitolo successivo ci viene raccontato per ognuno di essi cosa accadde durante la guerra; quali crimini vi furono compiuti, quanti abitanti furono costretti alla fuga, quanti furono massacrati, quante case furono rase al suolo dagli esplosivi posti dai genieri dell’Haganah. Infine la storia si chiude su cosa resta oggi di quel villaggio: quasi sempre il nulla. Questo per 418 volte, anche se gli insediamenti palestinesi occupati e distrutti dai sionisti furono molto di più. L’opera di Walid Khalidi è un atto d’accusa struggente e inscalfibile all’essenza disumana del sionismo.