Sulla Turchia gli intellettuali hanno il dovere di non usare le parole invano

Quando sui media – o perlomeno quelli principali – viene rappresentata sistematicamente una sola posizione, nella fattispecie quella anti-turca, non è una bella cosa. Tuttavia nessuno si sogna di sostenere per questo che l’Italia non è un paese democratico. Proprio per questo, anche quando le opinioni espresse in sedi autorevoli da autorevoli intellettuali o giornalisti presentano un discutibile unilateralismo, esse rientrano nella nostra amata libertà di espressione.

Ma c’è un limite che non andrebbe superato. E’ quello dell’uso delle parole. Non solo per un minimo di dovere di corretta informazione ma anche perché un uso improprio può danneggiare le stesse cause che l’opinionista di turno vuole difendere.

Non si accorge per esempio, Beppe Severgnini (Corriere della Sera 12 ottobre 2019) che chiamare “ricatto” la minaccia di Erdogan di aprire le sue frontiere all’esodo dei profughi siriani verso l’Europa è anzitutto un insulto a quelle stesse persone? Provate a sostituire la parola “profughi siriani” con “profughi ebrei” e a contestualizzarla un’ottantina di anni fa per vedere l’effetto che fa. Effetto ancora più sgradevole se accompagnato dall’aggettivo “disgustoso”. Erdogan dal canto suo non fa altro che sfruttare l’isteria europea nei confronti di profughi o migranti che sia, ché se tale isteria non ci fosse il “ricatto” non avrebbe efficacia.

E siccome lui di profughi in patria ne ha accolti tre milioni e passa, e ci si è anche giocato una fetta di consenso, non lo si può certo accusare di non aver fatto la sua parte molto prima di ricevere i fondi europei.

A sua volta Dacia Maraini, da sempre sostenitrice di nobilissime cause, dovrebbe forse riflettere un attimo sull’uso della parola “dittatore”. Perché si può non condividere la sua analisi sul popolo curdo che è faccenda complessa su cui anche gli esperti si dividono. Si potrebbe ricordare quanto la politica internazionale usi due pesi e due misure in faccende di separatismo (sono di oggi le condanne degli indipendentisti catalani), di terrorismo (gli attentati in Turchia non fanno notizia, anche se avvengono in una discoteca – sì, ce ne sono anche a Istanbul – e fanno decine di morti, tra cui anche europei e un israeliano), di diritti umani (Ocalan è in prigione in Turchia dal 1999 perché nessun paese europeo, compresa l’Italia, ha voluto concedergli l’asilo politico).

Si potrebbe ricordare che non è stato Erdogan solo a dichiarare il PKK organizzazione terrorista ma bensì Usa e Ue, e si potrebbe ricordare che tutto questo è successo quando Erdogan non aveva ancora fondato il suo partito AKP (nel 2001) né era diventato prima ministro (nel 2003). Si potrebbe ma Dacia Maraini ha il diritto di non farlo.

Però Dacia Maraini come Beppe Severgnini come tutte le voci autorevoli che hanno spazio su media autorevoli hanno la responsabilità di non usare le parole alla leggera. Quando Erdogan viene chiamato “sultano” è chiaro che si tratta di una metafora che se ne condivida o meno il senso. Quando viene chiamato “dittatore” non è più chiaro se il termine viene usato in senso metaforico o in modo proprio. E quando si fa un discorso politico queste confusioni andrebbero evitate. Che la Turchia non sia una dittatura dovrebbe essere evidente: forse che ci teniamo un dittatore nella Nato? Forse che gli diamo fondi europei? Forse che un dittatore accetta sconfitte elettorali (Erdogan lo ha fatto due volte)? L’uso improprio della parola “dittatura” è problema peraltro fin troppo noto anche nelle nostre faccende interne.

La sinistra hanno dato del dittatore a Berlusconi, il quale a sua volta ha parlato di “anticamera della dittatura” a proposito di Salvini. Sarebbe opportuno riservare il termine a quello che è davvero dittatura. Altrimenti si corre il rischio di gridare “al lupo al lupo”.

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