Al Sisi è diventato il simbolo dell’oppressione: dal Libano all’Algeria, dal Sudan alla Tunisia, le piazze scandiscono slogan contro il tiranno d’Egitto

 

Dopo l’ondata di proteste in Egitto che ha sorpreso tutti i commentatori esteri, con la maggior parte della stampa mainstream che ha evitato di coprire le manifestazioni anche a causa del sostegno diffuso da parte dei potenti della terra al regime sanguinario di Abdelfattah al Sisi, da tutte le piazze arabe si è mosso un vento di solidarietà in che ha preso di mira Al Sisi. 

Il dittatore è divenuto ormai il simbolo dell’oppressione che grava sui popoli arabi e percepito da tutti come tra i più feroci cani da guardia degli interessi delle elite globali a discapito dei popoli arabi e islamici, emblema della corruzione rapace che mantiene sotto scacco con la più cieca violenza il mondo arabo, il suo popolo e la sua esuberante e numerosa gioventù.

Il suo protagonismo nel cosiddetto “accordo del secolo”, voluto fortemente da Israele e dall’amministrazione Trump, e di cui farebbero le spese in primo luogo i palestinesi viene visto come un insulto e un tradimento da tutto il mondo arabo, tanto che nelle recenti manifestazioni libanesi la figura di Al Sisi è diventata un bersaglio fisso dei manifestanti, in Marocco è accaduto altrettanto proprio recentemente, così come in Algeria come documentato dalle telecamere di Al Jazeera in un servizio dedicato alle contestazioni contro Al Sisi nei diversi paesi arabi.

Nei giorni scorsi. In Tunisia addirittura durante le manifestazioni di festeggiamento per la vittoria del popolare giurista Kais Said, si sono levati slogan lunghissimi contro il presidente Al Sisi, minuti e minuti –– di canti contro il Faraone egiziano, invitato ad andarsene a gran voce.

In Sudan un folto presidio di fronte all’Ambasciata Egiziana nei giorni scorsi ha contestato Al Sisi e le sue politiche repressive, richiedendone le dimissioni. Sugli schermi di Al Jazeera, Basil Salah, uno dei leader del “movimento libanese” (al hirak al lubnanii) di Beirut, ha spiegato come Al Sisi rappresenti un anello del sistema dittatoriale che in modo generalizzato opprime i popoli arabi, e il rappresentante delle controrivoluzioni che hanno soffocato le “Primavere arabe”, esperienza storica che ha segnato uno spartiacque nel mondo arabo, rompendo con decenni di inerzia popolare e terrore, e a cui Basil ha collegato il movimento rivoluzionario libanese.

Infatti il Primo Ministro libanese Saad al Hariri, tra i principali bersagli della rivolta, aveva avuto recentemente parole di grande apprezzamento per le politiche neoliberiste e all’insegna dell’austerità perseguite da al Sisi, in particolare a seguito degli accordi tra Egitto e FMI.

I risultati delle politiche neoliberiste perseguite in Egitto, in Libano e progressivamente sempre più in tutto il mondo arabo, sono pessimi, con un rapido ed inarrestabile impoverimento delle classi medie e popolari e rivolte popolari spontanee. In Egitto la popolazione sotto alla soglia di povertà continua ad aumentare, raggiungendo ormai percentuali che per ammissione del Fondo Monetario raggiungono il 30%, mentre il 60% della popolazione viene definito “vulnerabile”.

Nel frattempo Al Sisi viene contestato anche nelle piazze occidentali, nelle settimane delle manifestazioni svoltesi in Egitto, si sono svolti sit-in contro il dittatore Al Sisi in diverse capitali europee, tra cui Milano e Roma. I sit-in hanno coinvolto alcune migliaia di persone, particolarmente egiziani ma anche cittadini italiani e di altre nazionalità arabe residenti nel nostro paese che hanno voluto dare un segnale di solidarietà, vicinanza e partecipazione a chi lotta in Egitto.

I presidi di protesta hanno chiamato alla libertà, alla democrazia e all’unità delle forze rivoluzionarie, appellandosi anche ai membri dell’Esercito ostaggi della megalomania, ferocia e paranoia di Al Sisi. Nei presidi in Italia, come in tanti altri paesi d’Europa, ma anche nelle capitali di tutto il mondo, i manifestanti sottolineano le disperate condizioni in cui versa l’Egitto, la corruzione endemica e la repressione disumana con le prigioni stracolme della migliore gioventù e delle migliori intelligenze del paese, detenuti in condizioni disumane come più volte sottolineato da tutte le organizzazioni internazionali, da Amnesty International a HRW e tante altre.

Nel nostro caso specifico è stato impossibile non ricordare la tragica e indimenticata vicenda del giovane ricercatore universitario Giulio Regeni, assassinato “proprio come un egiziano”.

E sempre i giovani sono i nuovi protagonisti, infatti la nuova composizione sociale delle proteste egiziane, che rassomiglia molto anche quella delle proteste libanesi è fatta di giovani scarsamente ideologizzati, non legati organizzazioni specifiche, uomini e donne spesso senza alcuna esperienza politica e senza una leadership definita. Questo può essere anche un punto di forza ma anche e soprattutto una profonda debolezza per i nuovi movimenti.

Le rivoluzioni del 2011 hanno prodotto cambiamenti sociali, politici, e soprattutto culturali molto profondi nelle società arabe e ciò a cui assistiamo oggi in Libano, recentemente in Algeria, Sudan e nuovamente nelle scorse settimane in Egitto è la diretta conseguenza di questi cambiamenti spesso semi-sotterranei e che non si sono ancora esplicitati pienamente. ( e questi cambiamenti stanno avvenendo, seppur in modo semi-invisibile per un occhio non allenato, anche nelle altre società arabe)

I giovani del mondo arabo sono profondamente cambiati in pochi anni, complice un incremento demografico senza pari (solo per fare un esempio l’Egitto è passato da 60 milioni nei primi anni 2000 a circa 100 milioni nel 2019, di cui il 52% ha meno di 24 anni, ed un’età media di 24,7 anni), diventando sempre più consapevoli e maturi politicamente, il malcontento che cova è ormai generalizzato, anche perché tutta la gioventù araba vive condizioni molto simili.

I dittatori sanguinari, a partire da Abdelfattah al Sissi, che martoriano il mondo arabo e la sua popolazione da tempo immemorabile potrebbero avere i giorni contati, nel mondo globalizzato e inter-connesso le dittature spietate hanno ben poco da sperare, il tempo dei cambiamenti è giunto, le nuove generazioni sono pronte a tutto, anche a morire come abbiamo visto, pur di ottenere pane, libertà e giustizia sociale, le tre richieste simbolo delle rivolte arabe del 2011, ribadite in tutte le ondate rivoluzionarie in Algeria, Sudan e Libano.

I liberi e i rivoluzionari di tutto il mondo gioiscano, perché il tempo della libertà è vicino.

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