Ota Benga, il pigmeo catturato ed esposto allo zoo come anello di congiunzione tra scimmia e uomo

Quando inizia questa storia, sul finire del diciannovesimo secolo, il Congo, territorio vastissimo, ricco di foreste e di tesori minerari, era proprietà personale del re del Belgio, Leopoldo II, che a quel territorio diede il nome di Stato Libero del Congo; nome che testimonia come il sovrano belga non fosse privo di sense of humour.

I belgi sfruttarono quella terra con la stessa voracità e la stessa passione che può avere un pitbull nello spolpare un osso. Vi avevano importato dal Brasile l’Hevea Brasiliensis, pianta meglio nota come Albero della gomma, e di questa pianta vi impiantarono estese coltivazioni. Da quell’albero si ricava il caucciù, materiale allora preziosissimo perché la produzione industriale della gomma artificiale sarebbe stata possibile solo diversi decenni dopo. Al lavoro nelle piantagioni, erano costretti come schiavi migliaia di nativi.

In questo contesto si inserisce, nel cuore profondo della foresta congolese, la storia di Ota Benga. Ota Benga fu un pigmeo della tribù degli Mbuti, una stirpe di abilissimi cacciatori, silenziosi e furtivi abitanti della foresta dell’Ituri, regione nord orientale di quella che oggi è la Repubblica democratica del Congo.

Il giovane pigmeo della cui storia ci occupiamo, al ritorno da una battuta di caccia, trovò il suo accampamento distrutto, e sua moglie e i suoi due figli uccisi. Le povere capanne avevano ricevuto la visita della Force Publique, un corpo militare belga formato dalla peggior feccia coloniale.

Un pigmeo privo di famiglia è un uomo disperato e nella disperazione Ota Benga vagò senza meta nella foresta, sperando di potersi aggregare ad altri pigmei. Fu invece trovato da una banda di schiavisti, catturato, trascinato fuori dalla foresta, l’unico ambiente che fino a quel momento aveva conosciuto, e portato a lavorare in una fattoria.

La storia potrebbe finire qui, o meglio esaurirsi in pochi anni trascorsi in schiavitù, prima che una morte pietosa ponesse fine alle sofferenze di questo essere umano. Sarebbe sicuramente finita così, come quella di migliaia e migliaia di infelici vittime di quel colonialismo disumano, se non fosse capitato da quelle parti un personaggio singolare, un mercante ed esploratore dilettante americano di nome Samuel Verner.

Samuel Verner arrivò in Congo perché aveva ricevuto l’incarico di trovare un autentico “anello mancante fra scimmia e uomo”.

Quella di trovare l’anello mancante, che avrebbe definitivamente corroborato le teorie di Darwin, era in quell’epoca di positivismo trionfante un’autentica ossessione, come avrebbe in seguito testimoniato la vicenda che si svolse in Inghilterra dell’Uomo di Piltdown; quando un’equipe di ingegnosi darwinisti, tra cui il teologo cattolico eterodosso Theilard de Chardin, letteralmente fabbricò un fossile incollando una mascella umana al cranio di una scimmia. Questo reperto fece bella mostra di sé a lungo al British Museum, divenendo meta di numerose scolaresche in visita di istruzione, fino a che, finalmente, nel 1953 la truffa fu smascherata.

Ma torniamo alla nostra storia. Verner, dopo aver osservato il pigmeo e dopo aver valutato quanto fosse piccolo, quanto fosse nero, e dopo aver osservato i suoi denti che una pratica tribale aveva voluto affilati come punte di freccia, dopo aver giudicato che quella creatura faceva al caso suo, lo acquistò pagandolo una libra di sale e un rotolo di tela. Insieme ad altri infelici, Ota Benga fu portato negli Stati Uniti dove nel 1904 fu esibito all’esposizione universale di Saint Louis in Louisiana; esposizione organizzata per celebrare il centenario della cessione della Louisiana dalla Francia agli Stati Uniti.

La storia ci dice che vicino a lui, in quella Fiera che celebrava le sorti magnifiche e progressive e il trionfo della scienza positiva sulla superstizione e la barbarie, c’era Geronimo, il valoroso guerriero apache, anche lui esposto come fenomeno da baraccone, ridotto a vendere ai visitatori come souvenir gli archi e le frecce che aveva egli stesso fabbricato. Entrambi, Ota Benga e Geronimo avevano avuto la famiglia massacrata: Ota Benga dalle canaglie della Force Publique, Geronimo dai soldati messicani.

Terminata la fiera rimase un po’ di tempo col suo compratore; con lui ritornò per un breve periodo in Africa, dove non riuscì a ritrovare il suo mondo perduto, e nel 1906, sempre con Verner, fece di nuovo rotta verso gli Stati Uniti.

Ma che fare negli Stati Uniti? Che poteva fare, se non ancora presentarsi come un selvaggio, un umanoide, una via intermedia fra uomo e scimmia? e così fu di nuovo impiegato per la delizia dei visitatori nell’American Museum of Human History di New York come fenomeno vivente.

La cosa non durò a lungo perché sembra che Verner non riuscì a trovare un accordo economico per lui soddisfacente con i responsabili del museo e quindi, saputo che lo zoo del Bronx voleva espandere il padiglione riservato ai primati, lo portò là.

Ad Ota Benga nello zoo fu permesso di muoversi liberamente, anche se la sua amaca fu posta nel padiglione delle scimmie e fu presentato dalla New York Anthropological Society come esempio vivente di evoluzione umana.

L’intervento di pastori evangelici neri pose fine a questo scempio e Ota Benga fu trasferito in un orfanatrofio per bambini afro-americani gestito dal reverendo James Gordon, il pastore che con più forza aveva chiesto la sua liberazione. Sempre con l’aiuto del reverendo, trovò rifugio presso una famiglia di amici, i MacCrays; questi gli fecero arrotondare i denti e fu mandato in una scuola per bimbi neri. Trovò poi lavoro in una ditta per la lavorazione del tabacco. Nel 1914 cominciò a risparmiare sul suo salario per acquistare i biglietti per il suo ritorno definitivo in Africa. L’Africa, i verdi padiglioni dove era nato, il suo sogno perduto. La prima guerra mondiale nel frattempo era iniziata e nel 1916, quando ormai pensava di aver abbastanza denaro per poter partire, gli fu detto che l’occupazione tedesca del Belgio aveva creato enormi problemi d’ordine burocratico e che di fatto, almeno fino a che la guerra fosse continuata, sarebbe stato impossibile partire.

Aveva 32 anni Ota Benga quando il 20 marzo del 1916 con un colpo di pistola diretto al cuore pose fine ai suoi giorni.

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