C’era una volta a Beirut: la convivenza levantina secondo Amin Maalouf

Il nuovo premio Rosa d’autunno Milanesiana-Bookcity è stato conferito a Amin Maalouf, l’autore di Le crociate viste dagli arabi (1983), che a Bookcity Milano ha presentato il suo ultimo volume dal titolo Il naufragio delle civiltà. 

In questo libro lo scrittore libanese naturalizzato francese sostiene che in alcune contrade del mondo arabo molto recentemente sono state vissute delle esperienze utili per affrontare il naufragio globale in corso, esperienze purtroppo a loro volta naufragate.

In particolare, Maalouf racconta la Beirut della sua gioventù (lui è del ’49), ed il modello di convivenza tra le tante comunità religiose cristiane (Maronita, Greco-Cattolica, Greco-Ortodossa, …), musulmane (Sunnita, Sciita), e quella Drusa. Non si tratta quindi della solita narrazione sul passato glorioso della civiltà islamica, anche perché l’autore è figlio di madre maronita e padre greco-cattolico, ma del ricordo di un momento di splendore del Levante da cui è passato meno di mezzo secolo (secondo Maalouf questa esperienza si chiude definitivamente nel 1979).

La necessità di un siffatto modello di riferimento, secondo l‘autore, è quanto mai urgente perché la globalizzazione “spinge le diverse componenti dell’umanità a ridurre le distanze. Questa vicinanza forzata, non importa se fisica o virtuale, suscita al tempo stesso affinità e ostilità”.

Non esiste un perimetro geografico unico per inquadrare il Levante e nella sua accezione più ristretta, esso è quella fascia costiera che va da Antiochia (sud della Turchia) alla Striscia di Gaza e comprende anche l’isola di Cipro. Storicamente invece si considerava Levante la sponda orientale del Mediterraneo che va dalla Grecia fino a buona parte della Libia, più gli attuali Iraq e Giorgania.

Maalouf racconta di essere “nato nell’universo levantino” che per lui è “l’insieme dei luoghi dove le antiche culture dell’Oriente mediterraneo frequentano quelle più giovani dell’Occidente. Dalla loro intimità stava per nascere, per tutti gli uomini, un avvenire diverso. L’intera umanità avrebbe avuto davanti a sé, a ispirazione e illuminazione del suo cammino, un modello eloquente di convivenza armoniosa e prosperità. Purtroppo, è accaduto il contrario. Le luci del Levante si sono spente e l’oscurità si è diffusa in tutto il pianeta”.

Per l’autore quando il modello di convivenza levantino è imploso “è un po’ come se tutti avessimo avuto una scossa mentale di grande intensità il cui epicentro era dalle parti della mia terra natale”. Tra gli aspetti che rattristano l’autore vi è l’oblio rapidamente calato su quell’esperienza che ora si crede inesistente o comunque riferita ad un passato molto più remoto. Eppure “l’abominio che oggi è sotto i nostri occhi è più recente di quanto sembra”.

La sua visione catastrofica del mondo arabo-islamico odierno, almeno in parte condivisibile, è probabilmente da attribuire a due fattori. Il primo è il suo metro di giudizio “orientalista”, su cui si tornerà più avanti, e il secondo è la sua appartenenza ad una generazione che ha avuto “l’ambiguo privilegio… di aver assistito alla lenta metamorfosi del D. Jekyll in Mr. Hyde”. Per raccontare questa metamorfosi l’autore sceglie tre annate spartiacque: 1952, 1967, 1979.

1952: Il sogno del riscatto arabo

Nei suoi primi anni di vita Maalouf aveva vissuto nel “paese del Nilo” dove da due generazioni si era stabilito il ramo materno della sua famiglia, e dove anche suo padre viaggiava di frequente. Dopo la Rivoluzione egiziana del 1952 dovettero fare ritorno in Libano perché vittime degli effetti collaterali delle politiche nazionalistiche di Nasser, che di lì a poco sarebbe diventato la figura di riferimento del riscatto arabo dal passato coloniale.

Nel giudicare Nasser l’orgoglio arabo dell’autore prevale sul risentimento per le sorti della sua famiglia, forse anche perché essa aveva una posizione sociale di rilievo anche in Libano, e così Maalfour finisce per proporre un “Pantheon di Giano” per figure “bifronte” tra cui annoverare personaggi come Nasser e Churchill.

Sul leader egiziano ha scritto che “si era imposto sulla scena mondiale come il nuovo campione della lotta per i diritti dei popoli oppressi” ma “fu in questo momento di gloria che il rais pronunciò la condanna a morte dell’Egitto cosmopolita e liberale”. Poco male per l’autore perché negli anni ’60 “Beirut aveva iniziato a soppiantare il Cairo come capitale intellettuale dell’Oriente arabo” consentendogli di vivere quell’esperienza che avrebbe voluto non finisse mai del “contatto permanente e intimo tra popolazioni cristiane o ebraiche intrise di cultura araba, e popolazioni musulmane risolutamente rivolte a Occidente, alla sua cultura, al suo modo di vivere, ai suoi valori”.

Questo è forse il passaggio in cui si evidenzia di più la sua visione “orientalista” così come la definisce Edwad W. Said, cioè quella dell’occidente-cristiano che relega l’oriente-musulmano al passato e lo condanna all’occidentalizzazione e alla laicizzazione.

Nell’analisi del contesto attuale quello che secondo Maanfour manca al mondo è un ideale come quello marxista che risultò trasversale al mondo intero, compreso quello arabo-islamico. La scomparsa di questo ideale qui in occidente ha comportato l’evoluzione in corso del Capitalismo con tutte le conseguenze nefaste che stiamo vivendo, mentre nel mondo arabo-islamico questo stesso ideale aveva dato vita a fenomeni interessanti proprio durante il periodo della rinascita che stiamo considerando.

L’autore ci ricorda che l’Indonesia oggi nota a tutti come “la più grande nazione musulmana al mondo, aveva il più grosso Partito Comunista del pianeta dopo la Cina e l’Unione Sovietica”, più grande quindi di quello italiano che era l’anomalia del blocco Nato. Ma soprattutto ci ricorda che quello marxista era lo spazio politico dove coesistevano le diversità, dove confluirono tanti ebrei di Russia, Germania, Polonia, e dove potevano arrivare alla leadership personalità appartenenti alle minoranze, come nel caso del leader del partito comunista iracheno Yusuf Salman Yusuf, detto “il compagno Fahd”, che era cristiano, o come il leader del partito comunista siriano Khalid Bakdash che era curdo.

Se in democrazia attribuiamo ancora un valore positivo ai corpi sociali intermedi e se abbiamo a cuore la tutela delle minoranze, non possiamo che constatare la perdita in tal senso costituita dalla scomparsa dei partiti comunisti di del secolo scorso. E la cosa può essere fatta senza rimpiangere i regimi socialisti.

1967: La sconfitta definitiva

Dopo la Rivoluzione del 1952 Maalouf individua nella Guerra dei 6 giorni del 1967 un’altra tappa determinante per il Levante, ma stavolta solo in senso negativo. Con la sconfitta lampo di Siria, Giordania ed Egitto, per mano di Israele, Nasser perde il suo prestigio e parallelamente aumentano i seguaci del cosiddetto jihadismo.

Dalla sconfitta del ’48 contro Israele gli stati arabi, nati dalla penna dei vincitori della Prima Guerra Mondiale, iniziarono progressivamente a perdere credibilità agli occhi delle proprie popolazioni. Iniziò così a prendere forma il fenomeno come lo conosciamo oggi del jihad invocato da leader che non sono al potere, con la possibilità che questa dichiarazione di guerra abbia i suoi adepti in giro per il mondo.

Dopo la sconfitta del ’67 prese definitivamente piede il cosiddetto Islam politico con le sue declinazioni anche armate. Paradossalmente fu allora che emerse l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina guidata da Arafat, un movimento rivoluzionario di matrice laica che era l’autorità di una nazione senza stato, la Palestina, e che si rapportava con i rappresentanti degli altri stati.

I movimenti politici di ispirazione religiosa che iniziavano a crescere nel mondo arabo arriveranno ad avere grossi consensi in Palestina solo più tardi (e soprattutto nella Striscia di Gaza). I primi anni dell’OLP, quelli del suo periodo libanese, sono raccontati nel libro di Maalouf con dovizia di particolari, così come la nascita della Repubblica Islamica dell’Iran nel 1979 di cui si parlerà più avanti. In ambo i casi l’autore è una fonte di informazioni preziosa essendo stato testimone diretto di avvenimenti cruciali.

“La disperazione araba è nata il 5 giugno del 1967… Gli arabi sono rimasti come bloccati a questa sconfitta, e non hanno mai ritrovato fiducia in sé stessi”. L’episodio spartiacque della Guerra dei 6 giorni è ovviamente reale ma serve a Maalouf per rafforzare la narrazione, di per sé alquanto veritiera, secondo la quale pochi decenni fa “il mondo arabo si muoveva silenziosamente verso la modernità, verso la laicità, e verso la pace civile”. 

Non c’è però in Maalouf alcuna riflessione sulla innaturalità di tale processo “importato”, fondato cioè su presupposti nati altrove (come i moti europei del 1848) che non avevano paralleli nel mondo arabo. É ragionevole invece ipotizzare che alcune partiture possano essere suonate solo dallo strumento per il quale sono state scritte.

Nell’analizzare l’incapacità del mondo arabo di riprendersi dalla sconfitta militare contro Israele, e dalla constatata impossibilità di una rivincita sul piano bellico, Maalouf porta esempi eloquenti di paesi come la Germania e il Giappone che, dopo aver perso la Seconda Guerra Mondiale, sono diventate delle super potenze economiche, o come la Corea del Sud che, con la costante minaccia atomica di Pyongyang sulla testa, è riuscita a portare un oggetto tecnologico (Samsung) praticamente in tutte le case del pianeta. Davanti a tali esempi il mondo arabo dovrebbe oggettivamente almeno un po’ vergognarsi.

1979: Il grande capovolgimento

La seconda metà del libro inizia analizzando la convergenza di tutti gli accadimenti mondiali avvenuti intorno al 1979. In quell’anno secondo Maalouf lo “spirito del tempo”, lo zeitgeist della filosofia tedesca, ha espresso un cambio di ciclo nella “marcia della storia… Da allora il conservatorismo si sarebbe preteso rivoluzionario, mentre i sostenitori del progressismo e della sinistra non avrebbero avuto altro scopo che la conservazione dello status quo”.

I principali fatti del 1979 per Maalfour hanno avuto luogo a Londra e Teheran, e sono l’elezione a primo ministro britannico della Thatcher e la nascita della Repubblica Islamica dell’Iran. Ma anche il sequestro della Moschea a Mecca e la discesa in campo dell’Unione Sovietica nel nuovo Vietnam costituito dalla Guerra in Afganistan, che sarebbe durata quasi un decennio e l’avrebbe accompagnata alla sua scomparsa dalla storia.

Per quanto riguarda il mondo arabo-islamico gli avvenimenti di Teheran e Mecca inaugurarono la stagione del declino in corso, con l’imbarbarimento della rivalità tra sunniti e sciiti, a seguito dell’emergere dell’Iran (sciita) come potenza economica dichiaratamente islamica, e con la “competizione” in materia di “fondamentalismo” con cui nel mondo arabo (sunnita) qualcuno ha ritenuto di scongiurare il possibile effetto domino della Rivoluzione Iraniana che col sequestro della Moschea a Mecca sembrava prossimo.

Maalouf si dilunga infine in un’analisi approfondita della crisi in cui versa l’occidente: l’acuirsi dei conflitti identitari, le forti disuguaglianze economiche, i fenomeni di omologazione, la demonizzazione dello Stato come attore economico, la fede cieca nella “mano invisibile” che regolerebbe il libero mercato, l’assenza di autorità politiche guida di spessore, la deriva orwelliana costituita dal “grande fratello” dei tracciamenti telematici e bancari.

Alla fine si ha la sensazione della mancata chiusura del cerchio tra le necessità globali derivanti dal naufragio delle civiltà e il “modello Beirut” che non c’è più. Perché Maalouf lascia al lettore più domande che risposte, ma sono domande ben poste di cui di ha un gran bisogno e le cui risposte non si trovano su Wikipedia.

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