Ripensare la socialità in tempi di epidemia

Nelle calamità naturali e sociali – terremoti e guerre, alluvioni e aggressioni – l’uomo in quanto “animale politico” (dal greco polis), in quanto essere “civile” (dal latino civitas), in altre parole il figlio della cultura europea fondata sulle città, ha l’istinto di radunarsi, raggrupparsi, riunirsi. Nelle emergenze si attivano solidarietà di tipo spaziale – di quartiere e di vicolo, di caseggiato e di vicinato – che si preoccupano anzitutto di riorganizzare lo spazio sconvolto dalla calamità, organizzando rifugi e accampamenti, comitati di quartiere e turni di guardia, mense collettive e scuole autogestite.

La messa in comune di sapori e competenze

Questo riflesso non mira soltanto ad assicurare in qualche modo la soddisfazione di bisogni fondamentali quali la sicurezza e il riparo dalle intemperie, il cibo e l’educazione dei bambini. Esso ha anche per fine la concertazione, la messa in comune di saperi e competenze per individuare linee di azione: tengono consiglio i capi politici ed i notabili, nelle sedi dei loro partiti o nei loro palazzi, si consultano gli scienziati nelle loro università e i giovani volontari presso le proprie associazioni. E ha anche per fine, questo riflesso, di proteggere e riprodurre un patrimonio di civiltà che si sente minacciato, fatto di beni materiali e immateriali, di simboli e pratiche sociali, di credenze e valori.

Nella civiltà urbana, frequentare lo spazio pubblico è sempre stato atto di resistenza

Si festeggia con pochi mezzi ricorrenze civili e religiose, si allietano con doni minuscoli e minuscoli piaceri nascite e matrimoni, si piangono insieme i morti e si consolano i sopravvissuti, ci si raduna per gli atti di culto in spazi improvvisati: lo si è fatto e lo si fa nelle trincee e nei campi profughi, nelle tendopoli dei terremotati e nei prefabbricati degli sfollati. Si tengono aperti musei e teatri, cinema e caffè. A Londra sotto i bombardamenti tedeschi il Victoria and Albert Museum rimase aperto a grande richiesta del pubblico con annessi rifugi antiaerei; nella Sarajevo sotto assedio la gente affollava i teatri a lume di candela. Nella civiltà urbana frequentare lo spazio pubblico è sempre stato un atto di resistenza.

Parola d’ordine: ” State a casa”

E’ dunque un fatto senza precedenti che nell’Italia dove il morbo infuria la parola d’ordine sia “State a casa”. Anzi, ciò che fino a ieri era parola d’ordine oggi è ordine tout court. Resosi necessario anche per la difficoltà che tutti noi abbiamo provato, nelle scorse settimane, a sfidare il riflesso secolare del confluire nello spazio pubblico “per condividere parole e azioni” come scriveva la filosofa Hannah Arendt. Andare al ristorante, commentare le notizie al bar, organizzarsi tra vicini per la cura dei bambini, fare la spesa, visitare gli anziani, prendere la metro (ricordate il film L’ultimo metrò di François Truffaut?) non sono più atti di solidarietà, di civiltà, di resistenza ma atti irrazionali, egoistici, irresponsabili.

La cultura della polis e della piazza nel DNA

Uno scenario di questo tipo non può non evocare distopie letterarie o regimi autoritari (i quali però, oltre a vietare assembramenti non avevano mai pensato di imporre distanze minime di un metro tra una persona e l’altra). Nulla di strano dunque se alla disciplina dei cinesi – che in democrazia non vivono – si contrapponga una certa resistenza degli italiani che invece vivono in un paese democratico e hanno la cultura della polis e della piazza nel loro dna. Il vero problema è: a quali modelli di comportamento attingere in una situazione che pare dissolvere non delle mere abitudini ma i valori stessi che le sottendono?

Il ritorno all’oikos

Piaccia o meno, le circostanze attuali spingono verso una maggiore autosufficienza dei nuclei familiari, un prevalere dei legami di sangue su quelli di vicinato, in altri termini verso un ritorno all’oikos, lo spazio privato e domestico, e un ritiro dalla polis, lo spazio pubblico e politico. Un fenomeno analogo si manifestò in Italia negli anni Ottanta. Si parlò allora di “riflusso” nel privato, nell’individualismo, nell’edonismo consumistico dopo la grande ondata dei movimenti giovanili e studenteschi, delle lotte operaie e sindacali.

L’ingiunzione a rinchiudersi nello spazio domestico 

A differenza degli anni Ottanta, tuttavia, la spinta odierna a disertare lo spazio pubblico non è l’espressione di un complesso mutamento di processi economici e politici, sociali e culturali ma si presenta come la conseguenza di un fenomeno repentino che appartiene in prima istanza all’ordine della natura e non a quello del sociale, governato da leggi che rispondono alla scienza prima che alla politica. Di conseguenza l’ingiunzione a rinchiudersi nello spazio domestico coglie di sorpresa un paese recalcitrante ad abbandonare lo spazio pubblico e sociale, soprattutto nelle regioni più ricche d’Italia – epicentro dell’epidemia – dove sviluppo economico, tradizione politica e consumi culturali vanno di pari passo, dove fino a ieri le Sardine hanno riempito le piazze, le mostre i musei e l’happy hour i bar.

Un paese che fa fatica altresì a capire perché debba abbandonare le nuove forme di solidarietà emerse dopo il riflusso degli anni Ottanta e fino ad oggi considerate virtuose: la mobilitazione della società civile e del terzo settore, delle associazioni e del volontariato, insomma i modelli di solidarietà nati negli anni Novanta, con il decentramento politico, l’integrazione europea, la democrazia partecipativa e il principio di sussidiarietà.

Alla ricerca di nuove forme di etica e di solidarietà

Adesso che il terzo settore già lancia segnali di allarme per la propria sopravvivenza, che l’autonomia dei municipi e il federalismo delle regioni devono cedere il passo ad un centralismo inflessibile, siamo costretti a cercare nuove forme di etica e di solidarietà su cui basare la coesione sociale. Dovremo forse imparare con i nostri figli a giocare ai piccoli pionieri (andando a rivederci le puntate di La casa nella prateria) o ai naufraghi nel Pacifico (leggere La famiglia Robinson)?

Certo è che almeno per alcune settimane o alcuni mesi ci toccherà reinventare le funzioni dell’oikos, dello spazio domestico: non più solo sede di consumo ma, almeno in parte, di processi produttivi e di erogazione di servizi. Con un numero crescente di genitori che lavoreranno in casa in modalità smart-working, di bambini che dovranno imparare a leggere, scrivere e far di conto sotto la guida dei genitori come una volta, di adolescenti che dovranno shiftare le loro relazioni dal gruppo dei pari a quello familiare, gli spazi casalinghi dovranno ristrutturarsi per allestire postazioni di lavoro e di studio, area giochi e area conversazione.

Con ristoranti e cinema chiusi si tornerà forse al rito del pranzo domenicale in famiglia, si guarderà tutti insieme un film sul pc (per chi già non possiede un home theatre) e magari, con negozi e supermercati chiusi nel week-end, si tornerà a preparare conserve e congelati per le emergenze, non potendo più fare affidamento su acquisti last-minute al supermercato aperto h24.

Il modello di solidarietà familiare

L’informale allargamento della famiglia nucleare già in atto da tempo – con i nonni che si spostano per andare ad abitare vicino ai figli e della cui presenza da tempo tengono conto le graduatorie di accesso agli asili nido in certi comuni – potrebbe evolvere in forme più sistematiche e istituzionalizzate di residenza matri o patrilocale, adesso che la prossimità residenziale intergenerazionale sta rivelando inediti vantaggi per le famiglie che ne godono.

A fronte di questi scenari – basati in parte su realtà in atto da tempo ma fino ad oggi sommerse – ci scopriamo tuttavia poco o nulla provvisti di modelli di solidarietà familiare che non ricadano nel “familismo amorale” descritto dall’antropologo Edward Banfield (Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino) negli anni Cinquanta e anche poco o nulla provvisti di modelli di solidarietà collettiva che ammettano – al posto dell’egualitarismo diffuso – una certa divisione dei ruoli quale ad esempio quella tra chi sta al fronte (medici e infermieri in primo luogo) e chi sta a casa. Forse questa è l’occasione buona per costruirli o ricostruirli.

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