Conte, il volto fragile dello Stato contemporaneo

Mentre si spera nell’immunità di gregge, infatti un’unica certezza resta: l’umanità non sarà mai immune dalla logica del gregge. Un gregge abituato da anni ad esser acefalo, senza capo né coda, a vivere sdraiato sulla linea orizzontale della democrazia, godendo precariamente dei frutti sparsi in campi apparentemente aperti. Campi su cui sono sorte all’improvviso recinzioni, provenienti dall’alto, dove emersa una figura, che sul corpo dello Stato, non ci ha messo soltanto la maschera, ma anche la faccia: il premier Giuseppe Conte.

Sulle maschere del teatro politico è stata cucita da mani a lutto la mascherina del consenso. Si è assistito a politici, finalmente dediti all’azione piuttosto che alla parola vuota. Intorno al movimento da formiche riemerge un sottofondo, un vociare scomposto. Il cicaleccio sta insorgendo, a furia di finte polemiche che dal senso unico dell’emergenza, ritornano ad abbracciare l’unica logica dei consensi; come sempre pronta a ingraziarsi gli umori mutevoli del popolo, che sta per affacciarsi dall’angustia soglia della quarantena.

Al di là dei giudizi politici, morali o economici, rivolti alle scelte operate dal governo, è evidente come la figura di Conte in questi mesi stia incarnando le fragili potenzialità dello Stato. Anche se quel che viene identificato col potere, in realtà decide ben poco, perché arriva sempre dopo una lunga catena di invisibili necessità tutte le decisioni e scelte prese in questo lasso di tempo, portano il suo volto. Diventato d’un tratto l’emblema dell’azione statale, che in questo momento si è riscoperta morale, quindi sottoposta a forme di giudizio contrastanti.

Se da una parte la vacuità del cicaleccio è rappresentata alla perfezione da una figura come quella di Salvini, che è al di là del bene e del male perché puro, vuoto e insignificante marketing politico, dall’altra parte non è forse un caso che il volto di Conte, estraneo fino a poco tempo fa alla politica di professione, possa esser letto come simbolo dello Stato contemporaneo, a cui sono dedicate le seguenti riflessioni in versi.

Lo stato è oramai un’associazione benefica, dalla quale ci si aspetta grazie, sostegni, salvezze.

Torna il desiderio d’un Padre severo, che al giusto punire sa contrapporre il dono.

Un tecnico presbiterio è divenuto il braccio statale, ove in assenza d’altra confessione, si cerca redenzione.

Pare al contrario che del vuoto, che s’ostina a chiamare “crisi”, sia sfinito; come potere insoddisfatto s’aggira tra uomini ordinari e non trova degno ostaggio.

Quest’organismo vacante è solo sulla bilancia, tutto proteso verso il suo polo che sfiora il suolo.

Si potrebbe assai dibattere su chi ha liberato l’altro braccio dal suo carico, ma non c’è promessa di nemico.

Le assi si sono semplicemente accavallate, convergendo sul suo capo tutto ciò che è stato finora necessario.

Necessario è stato il commercio, indubbio il benessere, pruriginoso il progresso.

Finché in tempo di peste provvidenziale, dinanzi al respiro affannoso della morte, son cadute ai suoi piedi le catene d’un popolo intero, pronto a lasciare le proprie anime sulla porta e a chieder miracolo, risposta.

Inizia a sfibrarsi il mazzo delle mani e uno solo resta al cospetto dei mali: Giuseppe Conte.

Sotto il cielo fratturato della legge resta in ginocchio quest’uomo, che sul volto già conserva in anteprima un frammento venturo di rovina.

Al suo fianco si dibattono tecnici e professori, che lobotomizzano la nazione disgregando attenzioni scomposte. Ma in questo vorticare di informazioni e previsioni un solo uomo, come burattino ingigantito dalle sue ombre, si dibatte nel vuoto spazio e tenta di incarnare il potere già sfumato.

Cosa accade però se al contempo è chiesto lui di essere Dio e Cesare?

Due poteri eternamente conflittuali, perversi in due rotte spontanee, che solo dal caso o dalla morte si lasciano incontrare.

Quale moneta scambiare e a quale ordine sottostare? Cosa si sceglierà di perdere?

Per troppo tempo abbiamo tenuto distante il quesito dell’abbandono, l’ansia taciuta della sconfitta. E se “andrà tutto bene” quanti morti dovremmo seppellire? E se “ce la faremo” quale vincolo dovremo patire?

Un popolo terrorizzato, non più intimo con la morte, immobile, opaco, tutto taciuto nel dato; questo popolo chiede di un Dio, che conservi la salvezza ed allo stesso tempo il denaro; questo popolo che ha solo il volto d’un uomo impaurito come fato.

Quando tutto sarà finito, da questa tribolazione, lui solo sarà punito.

Articolo di Paolo Grasso e Blu Temperini

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