Questo antirazzismo è l’ennesimo simulacro di conflitto sociale

Un afroamericano viene brutalmente ucciso, pornograficamente filmato, per diventare infine un’immagine riprodotta sugli schermi di tutto il mondo. Un improvviso vento mediatico, proveniente dagli Stati Uniti, spazza via per qualche giorno l’aria ristagnante della pandemia. Milioni di persone, mosse da Facebook, Instagram coi loro annessi influencer dello star system, si inginocchiano per manifestare contro il razzismo. Si tratta dunque di un’autentica forma di protesta o di un ulteriore segno del nostro inchinarsi all’opinione pubblica Americana? Questo antirazzismo è l’ennesimo simulacro di conflitto sociale

Senza dubbio il mondo occidentale si presta, senza esserne consapevole, a far da eco alla ormai prossima campagna presidenziale negli Stati Uniti. Come ormai accade da diversi quadrienni, le elezioni politiche vengono decise da abili manovre attraverso la circolazione delle informazioni (basti pensare all’ultima sconfitta della Clinton), che per esser efficaci devono coinvolgere anche le varie periferie dell’impero, Italia compresa.

Eventi eterodiretti da un’invisibile mano mediatica

Ne avremmo molti di episodi o fenomeni nel nostro paese contro cui protestare, da trasformare anche in lotte civili, invece ci lasciamo coinvolgere da eventi lontani, eterodiretti da un’invisibile mano mediatica. Inoltre le dinamiche legate alla pandemia hanno ben dimostrato come la paura e la diffidenza nei confrontri dell’altro siano purtroppo radicate ben al di là del razzismo, che è comunque profondamente consolidato anche nella nostra società. In ogni caso un reale antirazzismo difficilmente potrà diventare un movimento strutturato, perchè ormai è orfano di un appiglio culturale solido sui cui poggiarsi così come l’intero sistema valoriale occidentale. Infatti ciò che lo tiene ancora in vita è la logica delle minoranze, che sopravvivono soltanto in quanto feticci della maggioranza.

Il bisogno sociale che si nasconde dietro le proteste

Inoltre una tale ondata di proteste rivela un profondo bisogno sociale: la necessità di identificarsi in simboli collettivi. Le stesse grandi masse, manipolate e controllate attraverso il terrore della morte, diventano le principali acquirenti nel mercato dei simboli, dove si fanno scuotere da un’immagine, per poi muoversi e diventare a loro volta immagine. Un insieme di rappresentazioni che mostrano e riproducono la realtà, diventandone un simulacro. Allo stesso modo fluttuano seguono il movimento della moda, che mai si tramuta in reale e duraturo conflitto civile. Il clamore mediatico sarà intenso finché l’immagine pulserà, seguita da altre foto e video simili, ma presto tutte svaniranno senza lasciare dietro nessun sconvolgimento sociale, e neanche una rovina o un pò di cenere, perché non sono mai state materia, a differenza delle povere spoglie della persona uccisa, pervertite in icona pop.

Ci troviamo allora davanti all’ennesimo surrogato di una guerra, in questo caso civile, così come per anni la lotta al terrorismo islamico è stata il simulacro di una guerra di religione e la lotta pandemica lo è stata della peste.

Tutti conflitti che prima di essere realtà, sono immagini del reale, diventandone perciò dei simulacri. Scendendo nel quotidiano, al livello dei piccoli scontri che scandiscono le nostre vite individuali, è possibile rintracciare l’origine di tale tramutazione; l’odio virtuale. Persone il cui sguardo non riuscirebbe a sostenere l’astio negli occhi altrui per più di cinque secondi, si affidano a sfoghi logorroici su blog, forum, social svuotando provvisoriamente i loro carichi di bile, lasciando così intatta la sostanza del loro malcontento.

Una guerra che non rivoluziona

Si litiga e si odia digitando su una tastiera virtuale, ma senza sfiorarsi e tutto continua a scorrere normalmente. Così facendo la guerra si è trasformata in un surrogato, che genera paura e non terrore, che destabilizza ma non rivoluziona. Il risultato è sempre lo stesso: si conserva lo status quo senza rigenerare, aggiungendo solo nuove forme di protezione per riassorbire di volta in volta le falle del sistema o incidendo qualche ferita, senza però mai capovolgere l’ordine prestabilito. Naturalmente la matrice di tale ordine non è culturale, né politica o religiosa, ma economica.

La guerra virtuale dei ricchi che aizzano concretamente i poveri

L’ordine economico, che per semplificazione possiamo ancora definire capitalistico (anche se nella sua evoluzione finanziaria e digitale), è un ventre grasso che fagocita tutto il resto, viziandolo, ammaliandolo e non ha bisogno di guerre per crescere, ma piuttosto di piccole e graduali evoluzioni, fatte di nuovi bisogni e qualche piccola paura.

E’ ormai un dato di fatto che nel mondo contemporaneo le grandi potenze non possano combattersi direttamente e al massimo spostano i loro conflitti sul terreno delle piccole e povere colonie, come la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan, l’Ucraina, la Siria e altre ancora.

Non è una novità insomma che i ricchi si facciano la guerra virtualmente, aizzando concretamente i poveri. Da questa constatazione nascono due interrogativi: se il mondo avesse bisogno di una reale guerra? Ma una terza guerra mondiale è davvero impossibile?

Due quesiti ai quali si proverà a rispondere negli articoli che seguiranno…