No, il modello svedese senza lockdown non ha fallito

Stoccolma- Contrariamente ad una credenza diffusa, la gestione svedese della crisi del Coronavirus non è particolarmente bizzarra. La Svezia non è una nazione negazionista, la vita non vi continua come se nulla fosse accaduto e neppure è alla ricerca dell’immunità di gregge; sta solo cercando di abbattere la curva epidemica con il distanziamento sociale ottenuto attraverso metodi compatibili con la sua vita sociale e con la sua cultura politica.

Per intenderci, le decisioni sono prese a livello professionale e non a livello politico, la maggior parte delle direttive sono raccomandazioni, non ordini a cui non si può disubbidire e non c’è quasi costrizione che sia supportata da multe e da azione poliziesca. 

Le differenze fondamentali rispetto ad altri paesi, non sono molte: la Svezia non ha chiuso le sue scuole elementari e le sue scuole materne; non ha obbligato ad indossare la mascherina, e non ha imposto lockdown generalizzati, perché le autorità hanno deciso che queste misure avrebbero fatto più male che bene.

L’unicità del modello svedese può quindi essere definita come “nessuna imposizione di lockdown.” Questa è una differenza importante, ma- gli amanti delle teorie cospirative mi perdoneranno- ciò non significa che la Svezia tratti il Coronavirus come una “banale influenza.”

L’argomento principale adottato dai critici del modello svedese è l’alta mortalità, circa 11.000 in un paese di 10 milioni di abitanti. Quantunque questa sia una tragedia umana, anche ignorando il fatto che la popolazione svedese è molto anziana (il 20% degli svedesi ha più di 65 anni), il numero dei decessi in rapporto al numero di abitanti è comunque molto inferiore a paesi che in Europa hanno imposto severi lockdown, come la Francia e la Gran Bretagna. A oggi, l’esperienza in Europa ha mostrato che il lockdown non riduce necessariamente il livello di mortalità. 

Su questa questione, parlare di “fallimento del modello svedese” è assurdo, e ha il solo scopo di giustificare la politica del lockdown.

Perché, ad esempio, nessuno parla del “fallimento del modello belga”? Il numero dei morti in Belgio, che ha imposto drastiche chiusure, è di circa 1.800 per milione di abitanti. In Svezia è meno di 1.100.

“Ma lo stesso re di Svezia ha detto che il modello svedese ha fallito,” così si sente spesso dire. Il re Carlo Gustavo XVI ha biascicato qualcosa in un’intervista circa il numero dei morti che sarebbe un fallimento, ma non lo ha messo in relazione ad uno specifico aspetto del modello svedese, e certamente non al fatto di aver evitato il lockdown. La critica espressa dal re è anche stata accolta dalle autorità statali, che ammettono il fallimento nella protezione delle case di riposo per anziani. Ma cosa più importante, il re di Svezia non si occupa di questa materia, non ha una particolare conoscenza della questione, e non ha nessuna influenza o potere politico.

Una delle ragioni per cui il lockdown non è stato imposto in Svezia è che fino all’inizio del 2021, la legge non lo permetteva. Il governo poteva, e lo ha fatto, limitare pubblici eventi e prendere iniziative emergenziali, ma non aveva l’autorità per chiudere ristoranti, centri commerciali o palestre. Le leggi possono essere cambiate, ma gli svedesi esitano quando si tratta di limitare le libertà personali e i diritti umani. Questa è una delle ragioni per cui cercano di far cambiare volontariamente i comportamenti, evitando ordini perentori e multe. Ci sono molte indicazioni di un cambiamento ottenuto seguendo questa via. 

In Svezia è più facile mantenere la disciplina, la fiducia e la solidarietà. Molti affermano che questo è dovuto al fatto che la sua popolazione è omogenea (un modo educato per dire che loro non hanno comunità ultra-ortodosse o una popolazione araba). Ma l’immagine degli svedesi come persone bionde e ubbidienti, lavoratori indefessi e disposti a fare tutto quello che viene loro ordinato è falsa- un quarto della popolazione è costituita da immigrati di prima o di seconda generazione; il che costituisce una grande sfida, ma con un sistema di welfare socialdemocratico, la varietà etnica non contraddice necessariamente fiducia e responsabilità sociale. Al contrario- e greci e ungheresi mi perdoneranno- la mancanza di fiducia nelle autorità e la preoccupazione per un governo corrotto sono tipiche di alcuni paesi molto più etnicamente omogenei.

Un’altra questione assente dal dibattito pubblico è la dipendenza globale dalle tabelle e dai numeri, che possano essere esposti e compresi velocemente: il numero degli infettati, quello degli ammalati gravi, quello dei morti. Ci vorranno anni prima che il costo dei lockdown possa essere valutato e calcolato, ma la salute pubblica è un concetto ampio, e ci sono ragioni di credere che i vantaggi del modello svedese diverranno evidenti in futuro, specie relativamente a fenomeni come la depressione, le dipendenze, la violenza, l’obesità, il diabete, cure interrotte per altre patologie, povertà, disoccupazione e altro ancora.

 Questo è il prezzo di un lockdown: un costo alto e duro, e sarà pagato nel corso degli anni. La Svezia ha deciso di evitarlo quantunque la tentazione fosse grande. Gli ospedali di Stoccolma non si sono mai trovati nella stessa situazione degli ospedali lombardi o madrileni; l’eccesso di mortalità in Svezia negli ultimi mesi è minore che in Svizzera e in Austria; e il numero degli ammalati gravi in Svezia è più basso che in Romania e nella Repubblica Ceca.

Come ogni altro paese, la Svezia ha commesso errori nel gestire la pandemia. Ma il non aver imposto il lockdown non è fra questi. Mettere a confronto la malattia e il tasso di mortalità in Svezia e in Israele è problematico perché è difficile paragonare un caldo, giovane paese, con frontiere chiuse e molta esperienza riguardo a situazioni emergenziali con uno freddo, con una popolazione mediamente anziana, con frontiere aperte e la cui ultima esperienza di guerra risale al 1814. Ma, pensandoci bene, l’ultima condizione potrebbe non essere un grande svantaggio.

Forse trattare la pandemia come una battaglia militare è una metafora che è sfuggita di mano, e ha prodotto radicali, brutali soluzioni, quando quello di cui ci sarebbe stato bisogno erano soluzioni più complesse, più equilibrate e più a lungo termine. Spero che i generali mi vogliano perdonare, ma dopotutto il Coronavirus è un virus, non un esercito, e il Covid-19 una malattia, non una guerra. 

Articolo di David Stavrou pubblicato su Haaretz