Covid: la caduta degli idoli della scienza e della tecnica ci renda più umani

Credo sia oramai chiaro ai più che riguardo la natura e all’andamento di questa epidemia la scienza ha poche idee e per di più confuse. Quando ancorara durerà, nessuno lo sa e chi dice di saperlo tira ad indovinare.

Intanto nel Lazio l’inizio del Ramadan è coinciso con una improvvisa diminuzione, quasi azzeramento, del numero degli accessi nei pronto soccorso, e io che sono musulmano non posso che trarre le mie conclusioni di sicuro non condivisibili con i non musulmani, ma per me molto più reali di tutte le teorie ed ipotesi che circolano sul web e sui media.

Come se non bastasse anche le grandi speranze riposte nei vaccini sembrano infrangersi contro l’evidenza dei fatti, chi si vaccina non solo può essere veicolo di trasmissione e quindi non interrompe la catena dei contagi ma si può anche ammalare, ma questo non si può dire se non a bassa voce.

Come se non bastasse abbiamo anche scoperto che esistono le reazioni avverse da vaccino, ma a quanto pare sono poche, non c’è di che allarmarsi, anche se secondo i dati VAERS (Vaccine Adverse Event Reporting System) del CDC, negli USA i decessi dopo il vaccino anti COVID sono di un numero almeno 30 volte maggiore rispetto a quelli segnalati dopo il vaccino antiinfluenzale. Insomma il messaggio è che c’è un numero sacrificabile di persone e quindi come si dice in Ciociaria “a chi tocca s’arroscia”, almeno finchè non capita a te.

Una cosa che credo questa epidemia di Covid abbia lasciato a tutti coloro che negli ospedali si sono adoperati per lenire le sofferenze delle persone malate, è un netto e chiaro senso di impotenza. Posso testimoniare che tra gli operatori sanitari vi è la pressoché unanime impressione che le persone che siano morte e muoiono a causa della polmonite innescata dall’infezione siano andate incontro da subito ad un destino ineluttabile.

Un esperto collega si è espresso dicendo: “si ha l’impressione di tirare sassi contro un carro armato”, riferendosi alla sostanziale inutilità delle cure nell’arrestare la progressione della malattia dei casi che giungono poi al decesso. In effetti tutto quello che si riesce a fare sono terapie di supporto nel tentativo di guadagnare tempo, nella speranza che il corso della malattia viri da se.

Nel frattempo si cerca di spingere ossigeno nei polmoni dei nostri fratelli ansimanti. Una imperante atmosfera di fatalismo è la risultante di più di un anno di duro lavoro, continui ripensamenti, estenuanti tentativi e discussioni infinite tra colleghi, e ad esso si accompagna anche un forte senso di compartecipazione e fratellanza verso i malcapitati e le loro famiglie, verso i quali spontaneamente ci si sente maggiormente partecipi rispetto ai pazienti dei tempi pre-covid.

Forse di fronte al sostanziale ed innegabile ma non declamabile a gran voce fallimento della scienza-tecnica, sta avvenendo spontaneamente una riscoperta del “prendersi cura” al di là di qualsiasi protocollo o tecnicismo, atteggiamento che si è tradotto nelle corsie degli ospedali in una meravigliosa iniezione di umanità.

Tra gli operatori bardati come astronauti e affaticati per il duro lavoro, non si sentono più tutti i lamenti di una volta contro il primario, il tempo, il governo e le tasse, si assiste invece ad una gentilezza ed abnegazione verso i pazienti ma anche tra colleghi, che in vent’anni di frequentazione delle corsie d’ospedale non ho mai trovato cosi forte.

Allora se è vero che il senso delle cose va ricercato nel vissuto a cui ti portano determinati accadimenti e non in astratte elucubrazioni mentali, lasciamo pure che gli idoli della scienza e della tecnica cadano per ritrovarci invece più fratelli, più compassionevoli e più umani.