La conquista di Costantinopoli e la salvaguardia ottomana della cultura bizantina

Lo scorso 29 Maggio ricorreva il 568° anniversario della presa di Costantinopoli da parte del sultano Mehmet Fatih – una ricorrenza controversa nel panorama della storia europea, che talora rischia di ridursi a celebrazioni eguali e contrarie di sciovinismo nazionalista turco da un lato, e di revanscismo neo-cristianista europeo dall’altro.

Ciò che in tal modo resta perlopiù in ombra, oscurato da una venefica retorica della rottura, sono gli elementi di una più feconda e storicamente accurata narrativa della continuità. E’ ciò cui allude la bizantinista Silvia Ronchey, quando scrive: “Se Papa Benedetto XVI poté entrare ad Ayasofya [nel 2006], se possiamo contemplare intatti i meravigliosi mosaici che raffigurano gli imperatori bizantini – successori, in una linea giuridica ininterrotta, di quelli romani – è perché gli Ottomani non solo rispettarono sostanzialmente i tesori dell’architettura e dell’arte di Bisanzio, e non solo mantennero con onore al loro fianco quelle élites sociali greche che preferirono «il turbante turco alla tiara latina», ma conservarono anche i fondamenti della tradizione bizantina: [..] quella formidabile alleanza tra filosofia greca e diritto romano che è ciò che [culturalmente e storicamente] definisce la nostra civiltà europea”. 

Con la conquista di Costantinopoli, gli Ottomani furono infatti ben lungi dall’esercitare una rottura violenta ed esclusivista rispetto al passato bizantino; optarono invece per una lungimirante prospettiva di accoglienza, coltura e sviluppo della complessità preesistente – in linea con quello che, dottrinalmente e storicamente, è stato l’approccio islamico prevalente.

Come ha spiegato Franco Cardini nella sua storia di Istabul (pp. 118-9), “l’islamizzazione progressiva del paesaggio urbano [che avrebbe orientato la ricostruzione ed il ripopolamento della città] era uno degli scopi del Sultano, ma insieme ad esso si trattava di affermare la legittima continuità del potere rispetto ai basileis, e la legittimità di un patrimonio anche ideale e morale, garantito dal diritto di conquista. [..] Alla fine del suo regno, nel 1481, Mehmet lasciò la città dotata di una popolazione numericamente superiore a quella della vigilia della conquista ottomana. [..] Oltre il 40% della popolazione era non musulmana: si diceva già allora che la “mano del Sultano” era fornita – per la capitale, come per tutto l’impero – di “cinque dita”, vale a dire cinque etnie principali: turchi (e tali venivano considerati anche i curdi), arabi (cioé siriani, egiziani, magrebini), armeni, greci (tra i quali si computavano gli slavi ortodossi), ebrei. Ma vi erano poi i franchi e i latini, vale a dire gli europei occidentali, i rom, i caucasici (dai circassi ai georgiani), i tartari di Crimea – e si stava profilando la spuria ma affascinante categoria etnoculturale del “levantino”, un miscuglio di componenti fra l’italiana (soprattutto veneziana), la dalmato-albanese, la greca, l’ebrea (grecofona o ispanofona, i sefarditi provenienti dalla Spagna) [a seguito della loro cacciata da parte cattolica]”. 

In questa dinamica di preservazione e di continuità, l’antica istituzione romana dell’Impero – politicamente e spiritualmente stremata, dopo secoli di conflitti interni ed esterni – fu di fatto salvaguardata ed innestata sull’albero vivo della tradizione islamica, confluendo nella forma del Califfato: fu infatti la stessa Chiesa ortodossa a sancire formalmente – insieme, tra gli altri, al filosofo umanista greco Giorgio di Trebisonda – non solo il diritto definitivo del Sultano alla successione al trono bizantino, ma anche la legittimità della sua rivendicazione del titolo di ‘Imperatore dei romani’ (Qayser-i Rûm).

In questa veste, il suo primo atto fu proprio la nomina del nuovo Patriarca costantinopolitano – la cui sede patriarcale era rimasta  a lungo vacante, a causa delle dispute infra-ecclesiali: ad appena tre giorni dalla fine delle ostilità, la processione che preludeva all’investitura del patriarca fu svolta fra le vie di Costantinopoli, e – secondo le consuetudini bizantine, che vennero mantenute nei secoli successivi – Gennadio II ricevette le insegne del suo nuovo ufficio dal Sultano in persona. Patriarca ecumenico, etnarca (milletbashi) rappresentante della comunità greca – da cui lo Stato ottomano avrebbe tratto nei secoli numerosi dignitari ed amministratori – a Gennadio furono assicurati onori, benefici e diritti di proprietà tali da renderlo il secondo proprietario terriero dell’impero, dopo il Sultano stesso. 

Analoga e perfino maggiore premura fu profusa nel recupero, restauro e rinnovamento della basilica di Hagía Sophía. Profanata, saccheggiata e compromessa durante la IV Crociata, durante tutto il periodo dell’occupazione latina la basilica era rimasta sostanzialmente semi-abbandonata, ed in stato di grave decadimento strutturale – tanto da far esclamare allo stesso Papa Innocenzo III, promotore della Crociata: “Come potrebbe mai la Chiesa dei greci [..] tornare all’unione ecclesiastica ed alla devozione alla Sede apostolica [di Roma], quando ha visto nei latini soltanto un esempio di perdizione e di opera delle tenebre, cosicché ora detesta i latini – e non senza ragione – più dei cani?” (Lettere, 126).

In seguito alla riconquista di Costantinopoli da parte greca, l’edificio fu parzialmente restaurato (1261), salvo patire poi nuovi crolli e danneggiamenti – principalmente a causa di terremoti – e periodi di chiusura e diserzione da parte dei fedeli, per motivi settari. Con l’acquisizione del controllo e della proprietà della struttura da parte degli Ottomani, il sultano Mehmet al-Fatih – dopo aver provveduto al suo completo restauro – ne stabilì infine il carattere di fondazione inalienabile e la dotò di completa autonomia economica e gestionale, che ne garantisse nel tempo il decoro ed il prestigio. 

Nel corso dei secoli, anche grazie alle ingenti risorse riservate alla sua fondazione, furono imbastite periodicamente grandi opere di restauro, di mantenimento e rinnovamento del complesso architettonico – tra le altre, quelle guidate da Mimar Sinan (m. 1588) e dai fratelli Gaspare e Giuseppe Fossati (m. 1883/91). Con la stesura di tappeti alla fine del XV secolo, poté essere preservato intatto l’antico pavimento Giustinianeo; con operazioni di intonacatura, furono preservati i mosaici bizantini sopra il nartece e le porte imperiali.

Il complesso divenne gradualmente un polo culturale (külliye) di primaria importanza, con una scuola (medrese), un refettorio sociale (imaret) dedicato alla distribuzione di cibo ai bisognosi ed una fontana monumentale (şadirvan), che serviva per compiervi le abluzioni rituali ma anche come punto d’acqua di pubblica utilità.

Il ruolo di imam e di insegnante ad Ayasofya fu considerato a lungo il culmine del curriculum di studi dell’intellighenzia ottomana, e coloro che vi operavano ne costituivano propriamente l’élite più colta, rinomata e prestigiosa. Nelle parole del Presidente della Repubblica turca: “questo tempio, che era sull’orlo di essere distrutto sotto il collasso di un vecchio Stato [l’Impero bizantino], non fu semplicemente trasformato in moschea [con una rozza mentalità prevaricatrice], bensì fu [accuratamente] esaltato e vivificato. [..] Se la conquista della città aveva costituito lo sforzo minore, il restauro e lo sviluppo del complesso di Ayasofya – anche in senso culturale ed assistenziale – avrebbe rappresentato lo sforzo più grande; come l’edificio fu costruito, durante l’epoca dell’Impero romano d’Oriente, con materiali trasportati da ogni parte dell’impero, così [il Sultano] al-Fatih ed i sultani successivi avrebbero condotto artigiani da tutta l’Anatolia e la Rumelia affinché operassero alla ricostruzione di Ayasofya e di tutta la città di Istanbul”. 

Questa cultura della continuità è in definitiva più profonda ed incisiva di qualsiasi conflitto transitorio: se a tutt’oggi la città di Istanbul è uno straordinario crogiolo di culture, e se Ayasofya riluce del suo originario splendore – quello di un maestoso luogo di culto, di cultura e di bellezza, visitato da turisti di tutto il mondo, vissuto da cittadini di ogni ceto sociale ed aperto a persone di ogni orientamento religioso – è poiché al di là di un superficiale ‘scontro di civiltà’ palpita una feconda interdipendenza reciproca, una ricca eredità condivisa ed un imprescindibile destino comune. Una lezione che val bene la pena di apprendere con gioia, e di celebrare giorno per giorno con responsabilità.