Chiarimenti sulla “fatwa” per Saman

Con la scomparsa di Saman ‘Abbàs, l’UCOII, un’associazione comunitaria islamica, avrebbe rilasciato una ‘fatwa contro i matrimoni forzati’, di cui sono apprezzabili la buone intenzioni e la sostanza dei contenuti, ma le cui criticità risultano maggiori dei benefici. 

E’ opportuno chiarire innanzi tutto che una fatwanon è una sentenza (qadà’) emanata da un’autorità giudiziaria (il qadi), bensì un’opinione relativa ai precetti religiosi rilasciata da un esperto giurisperito (il muftì), il cui valore è prettamente consultivo – analogamente a quella che nel diritto laico medievale era la differenza fra ‘consilium sapientis iudiciale’ e ‘consilium sapientis pro veritate’. Come ha spiegato il sapiente giurisperito (faqìh) e muftì S.E. Shaykh Muhammad al-Yaqoubi: 

“Laddove il giudice (qadi) ha il potere di ordinare (inscià’) l’applicazione di uno statuto (hukm) [in virtù del mandato conferitogli dall’autorità giudiziaria del proprio Paese], il muftì si limita ad informare (ikhbàr) al suo riguardo; mentre la sentenza (qadà’) di un giudice non si può respingere, se non appellandosi ad un nuovo giudizio, il parere (fatwa) di un muftì può essere accolto o meno: [..] esso non implica per nessuno l’obbligatorietà della sua applicazione, ed a ciascuno è lasciata la libertà di accoglierlo o meno, a seconda del suo timor di Dio[e del suo grado di persuasione circa l’autorevolezza del muftì]. A nessun muftì [nella storia dell’Islàm] è stata mai assegnata una polizia, od una forza privata che vigilasse sull’applicazione delle sue dichiarazioni: il muftì non è infatti un giudice (qadì), né un legislatore (hàkim), né un ufficiale che abbia potere di implementazione del proprio verdetto (mulzim), bensì un sapiente che informa (mukhbir) circa l’ordinamento legale tradizionale, ed indica ciò che sia preferibile e più corretto (sawàb) da un punto di vista religioso – senza che rientri fra le sue prerogative l’esecuzione o l’implementazione pubblica dei dettami religiosi, né l’indagine di elementi probanti o l’ascolto di testimoni, tutte responsabilità di un giudice che sia specificamente appuntato dall’autorità politica del Paese (na’ibu s-sultàn). 

[..] Il muftì che in un Paese occidentale si pronunci [non solo in termini informativi, bensì con pretese di efficacia giuridica] rispetto a questioni come il divorzio o controversie commerciali fra fedeli musulmani sbaglia, poiché assume il ruolo del giudice senza averne la facoltà (sultàn); la sua responsabilità è piuttosto quella di consigliare e edificare spiritualmente i fedeli, indicando loro che – se desiderano una sentenza che modifichi legalmente il loro stato personale – è necessario che si rivolgano ad un giudice autorizzato. [..] Chi agisca diversamente sbaglia, collocando la fatwa in una posizione che non è la propria, eccedendo i propri limiti, ed arrogandosi prerogative che non gli spettano – facendo sì che la fatwa divenga un nuovo motivo di confusione e controversia, anziché uno strumento di conciliazione.” 

Ulteriore differenza fra parere sapienziale (fatwa) e sentenza giudiziaria (qadà’) – magistralmente trattata, fra gli altri, dall’Imam al-Qarafi in “al-Ihkàm” – è che, mentre quest’ultima afferisce specificamente alla risoluzione di casi presentati dinanzi ad un tribunale, il primo assume una prospettiva più complessiva, attinente cioè un più ampio ventaglio di questioni sociali e culturali poste privatamente dai fedeli, e riferita alla condizione generale dell’interrogante (mustaftì): laddove la ‘verità giudiziaria’ è infatti sentenziata dal giudice come esito di una procedura basata su un rigoroso impianto probatorio, il parere sapienziale assume una funzione più ampia di consiglio, guida morale ed orientamento spirituale – costituendo soprattutto uno strumento educativo di chiarimento e edificazione, non solo diverso ma ‘complementare’ e corroborante l’azione giudiziaria. 

E’ dunque evidente come non vi sia alcuna sovrapposizione rispetto al diritto positivo – non più di quanto accada, nel nostro ordinamento, per l’interpretazione rabbinica della halakhah ebraica, o per la disciplina ecclesiastica dei precetti religiosi legati alla convivenza civile; si tratta piuttosto di un’opera di ‘moral suasion’, generalmente tesa a rafforzare l’osservanza delle leggi vigenti – il cui rispetto è di per sé già parte dei doveri (non solo civili, ma anche religiosi) del fedele musulmano. Non ha perciò alcun senso la denuncia di un’ipotetica “imposizione della Legge islamica” in Italia, o addirittura di presunte analogie con l’ISIS, evocate con enfasi da politici e giornalisti; al contrario, fra le prime fatàwa tradotte in lingua italiana e diffuse nel nostro Paese – rilasciate già anni fa, non da organizzazioni comunitarie, ma da vere e proprie autorità sapienziali islamiche – vi furono proprio quelle contro l’ISIS e l’estremismo, pubblicate da musulmani italiani con Giorgio Pozzi

La ‘fatwa’ in questione si porrebbe dunque in continuità col tentativo – di per sé positivo e condivisibile – di testimoniare chiaramente la compatibilità fra dottrina islamica, ortoprassi religiosa, rispetto dei diritti umani e convivenza civile in un contesto laico e democratico; tuttavia, essa presenta diverse criticità, che sembra opportuno menzionare sommariamente. 

1) Non essendo sottoscritto da alcuna autorità sapienziale (muftì) od organismo giuridico specializzato (darul-iftà’), né afferendo ad alcuna specifica scuola giuridica tradizionale (madhhab) – che, oltre a costituire un riferimento immediatamente riconoscibile per i fedeli, ne garantirebbe autorevolezza tradizionale e consistenza metodologica – questo documento costituisce di fatto una sorta di comunicato stampa, pur avvalorato dall’(ovvia) adesione morale di “imam e guide religiose”. Ciò contribuisce ad acuire la confusione – tanto fra i fedeli, quanto in seno all’opinione pubblica – circa la natura dei riferimenti religiosi islamici – in questo caso, nell’ambito della giurisprudenza tradizionale (fiqh) – e dei loro specifici criteri di legittimità ed autorevolezza. 

2) Ribadendo un’ovvietà (la proibizione del matrimonio forzato), ed in assenza di circostanze inedite (nawàzil) che necessitino di ulteriori chiarificazioni, questa dichiarazione risulta tecnicamente superflua. Come ha osservato Shaykh Ahmad ‘Ali al-Adani: “[Questo documento] non chiarisce un aspetto nuovo, una contingenza precedentemente inesplorata nel fiqh (nàzila) – che è il campo specifico dove [eventualmente] opera il muftì. Si tratta dell’enunciazione di un giudizio (hukm) risaputo e cristallizzato nella giurisprudenza tradizionale (fiqh), come dire: “Il digiuno di Ramadan è obbligatorio” o “E’ vietata la vendita di ciò che non si possiede”, e così via. In tal modo, si suscita l’impressione – erronea e controproducente – che per i musulmani si trattasse di una questione dubbia o controversa, anziché di un retaggio culturale già esplicitamente condannato, ed il cui statuto sia sufficiente ribadire nell’ambito dell’orientamento religioso (irshàd) e dell’insegnamento (ta’lìm). 

3) Questo ‘parere’ replica dunque ad una questione che nessuno aveva di fatto sollevato: non l’UCOII, che lo “formula ed emette in concerto” con una “associazione di imàm”; non le comunità islamiche, per cui costituisce un argomento ovvio e risaputo; tanto meno, la famiglia coinvolta nella vicenda o la sua comunità locale di riferimento – sciita e pakistana parlante urdu, che dunque non avrebbe avuto ‘ragione’ di rivolgersi nemmeno ipoteticamente ad una realtà araba sunnita, culturalmente e dottrinalmente estranea, per un responso in lingua italiana. Manca dunque sostanzialmente un interrogante (mustaftì): quello specifico interlocutore rispetto alla cui coscienza e specifica situazione personale una fatwa sarebbe eventualmente chiamata a commisurarsi, assumendo quella funzione educativa e edificante che ne costituisce propriamente la raison d’être.

Anche da questo punto di vista, il documento assolve quindi più alla funzione di un comunicato stampa, rivolgendosi soprattutto all’opinione pubblica, in quella che il prof. Pierluigi Consorti, docente all’Università di Pisa, ha definito con compiacimento come una sorta di gara fra “realtà islamiche italiane” a “bruciarsi sul tempo” nel rilasciare pubbliche dichiarazioni – gara che evidentemente ha poco a che vedere con l’ermeneutica tradizionale, con la ponderatezza necessaria al suo sviluppo, e con la premurosa attenzione alle situazioni cui essa di volta in volta si rivolge. 

4) L’evidente impreparazione dell’opinione pubblica circa la natura e la funzione di una ‘fatwa’, insieme alla grande pressione mediatica in cui questo documento andava consapevolmente ad inserirsi, hanno fatto prevedibilmente sì che – in assenza di opportuni chiarimenti preliminari – le successive polemiche sulla sua ricezione (su cosa sia effettivamente una fatwa, come vada intesa, che cosa implichi, etc), ne abbiano in parte o del tutto oscurato il contenuto, acuendo anziché placare il carattere polemico del dibattito in corso. 

In questo clima, è stato il messaggio stesso della dichiarazione a risultare largamente travisato, non solo da politici e giornalisti: perfino secondo quanto dichiarato da alcuni ‘esponenti’ delle comunità islamiche, infatti, non soltanto i matrimoni “forzati” sarebbero “condannati e non accettati in nessun modo dall’Islam”, ma addirittura anche quelli “combinati” – basati cioè su un libero accordo che coinvolga non soltanto gli sposi individualmente, ma anche un ruolo di agevolazione delle rispettive famiglie, senza che ciò implichi necessariamente alcuna forzatura. E’ evidente come, al di là dell’errore concettuale, si aprano così le porte al rischio concreto di una più generale ‘criminalizzazione’ di pratiche sociali del tutto innocue, trasversali dal punto di vista religioso e culturale, e che – costituendo spesso delicati elementi di equilibrio familiare ed inter-generazionale – andrebbero accuratamente preservati, anziché essere ‘gettati in pasto’ alla polemica o discussi sbrigativamente. 

5) Un intervento così ‘impegnativo’ – almeno terminologicamente – sancisce infine un pericoloso precedente circa ‘l’islamizzazione’ di qualsiasi crimine individuale, nell’ambito del dibattito pubblico: non più soltanto laddove qualcuno compia un crimine dichiarando arbitrariamente di farlo ‘in nome dell’Islàm’ (come nel caso di attentati terroristici), bensì in qualsiasi circostanza in cui sia coinvolta una persona di fede o tradizione familiare islamica, a prescindere da motivazioni che potrebbero essere del tutto estranee dal fattore religioso – come nel caso di Saman, in cui un eventuale ‘delitto d’onore’ costituisce un retaggio non islamico condannato tanto dalla giurisprudenza religiosa quanto dalla legislazione dello stesso Paese d’origine della famiglia in questione, il Pakistàn. 

In tal modo, i musulmani sarebbero tenuti a pronunciarsi puntualmente – addirittura con fatàwa ad hoc – con la conseguenza paradossale di trovarsi comunque sempre in difetto: tanto qualora non lo facciano (“Dove eravate?”, “Cosa avete da dire al riguardo?”, “Perché non avete condannato?”, etc), quanto laddove lo facessero (“Perché non lo avete fatto prima?”, “C’era bisogno di una fatwa?”, “Perché dovremmo fidarci?”, etc): poiché ‘excusatio non petita, accusatio manifesta’, nessuna ‘dissociazione’ legata ad un fatto di cronaca sarà mai ritenuta davvero ‘sufficiente’, legittimando allo stesso tempo successive strumentalizzazioni ed ingerenze. 

L’evidente buona intenzione sottesa a questo documento merita comunque di essere apprezzata. L’auspicio è che possa maturare ed essere finalmente valorizzata nella promozione di una cultura sapienziale islamica autoctona e trasversale – che si sviluppi cioè tanto al di là di particolari logiche associative o di appartenenza, quanto indipendentemente dalla esigenze (reali o indotte) della comunicazione nel dibattito pubblico. Radicandosi nella realtà della società e della cultura del nostro Paese, oltre che nel terreno sempre fertile della sapienzialità tradizionale, si tratterà allora davvero di un albero i cui frutti saranno succosi e benefici – innanzi tutto per le Saman delle nostre comunità: non oggetti dell’effimera polemica d’occasione, bensì soggetti degni di vita e d’amore, nostre sorelle, vittime innocenti della criminale violenza dell’ignoranza e della strumentalizzazione.