Il Quartetto tunisino in Bicocca: dal Nobel per la Pace alla tentazione autoritaria

Tra i premi Nobel della letteratura vi sono opere immortali, altre dimenticate. Va ancora peggio per i premi Nobel per la Pace: a fianco di figure esemplari si contano personaggi a cui il premio oggi lo si vorrebbe togliere. Nel 2015 il Nobel venne assegnato al “Quartetto” tunisino: quattro organizzazioni cui venne riconosciuto il merito di aver avviato, in un periodo di grande tensione, il “Dialogo nazionale” tra le principali forze del paese. Cosa rimane oggi di quell’esperienza? 

All’Università di Milano Bicocca, e a Caterina Roggero, docente di Cultura Araba, un plauso per aver sollevato questo interrogativo – nell’ambito di un Convegno intitolato “Quale democrazia per quale pace” – proprio mentre la transizione democratica del paese appare di nuovo gravemente compromessa. Ospiti d’onore dell’incontro, tre dei membri del cosiddetto “Quartetto del Dialogo Nazionale Tunisino”: Houcine Abassi, ex Segretario dell’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt); Mohammed Fadhel Mahfoudh, ex Presidente dell’Ordine nazionale degli avvocati tunisini e Abdessatar Ben Moussa, ex Presidente della Lega Tunisina dei Diritti dell’Uomo (Ltdh).

Ricorda Caterina Roggero nella sua introduzione: “Nel 2013 in Tunisia c’era violenza per le strade, con rischi di guerra civile, a causa del contrasto laici/islamisti. Le quattro organizzazioni all’epoca presiedute dai nostri ospiti hanno promosso il Dialogo Nazionale e portato il paese fuori dalla crisi. Generosamente, perché sono intervenuti in qualità di membri della società civile e tali sono rimasti, senza cedere alla tentazione di entrare in politica, magari candidandosi.”

E oggi cosa sta succedendo in Tunisia? Lo chiede ai protagonisti di ieri il giornalista Giangiacomo Schiavi, cui è stato affidato, insieme a due studenti,  il ruolo di intervistatore. Ricordando il decreto presidenziale del 25 luglio 2021 con il quale il Presidente Kais Saied si è arrogato i pieni poteri Schiavi chiede se non siamo in presenza di “un cambiamento preoccupante negli assetti di potere.”

Risponde Abassi – il quale farà la parte del leone di tutto l’incontro – partendo da lontano. Ripropone la grande narrazione del “problema degli islamisti” che nasce – per chi non lo sapesse – il giorno successivo alle elezioni di ottobre 2011 da cui è uscito vincitore il partito della rinascita islamica Ennahdha.  Ricorda la “cultura millenaria del popolo tunisino”, un’espressione che nel lessico politico locale vuol dire: “Le nostre radici sono pre-islamiche”. Spiega che: “Il popolo tunisino non poteva tollerare una dottrina che attacca gli artisti” – allusione alle contestazioni violenti di film e mostre ad opera di gruppetti di salafiti.

Continua: “Poi sono passati agli assassinii politici” e si riferisce agli omicidi di Chokri Belaid e di Mohamed Brahmi che le opposizioni hanno subito imputato a Ennahdha. Le accuse si sono rivelate inconsistenti ma in ambedue i casi hanno provocato la caduta del governo. Incalza: “Hanno creato comitati militari che dicevano operare per la difesa della Rivoluzione ma servivano solo gli interessi di Ennahdha.” Di conseguenza, conclude: “Ci siamo riuniti, abbiamo stilato una roadmap e abbiamo chiesto ai partiti di sottoscriverla come condizione di ammissione al Dialogo nazionale. Abbiamo usato a tal fine tutti i mezzi di pressione possibili.” Aggiunge:”Avevamo anche un piano B per rafforzare ulteriormente la pressione sui partiti in caso di necessità. Lo abbiamo usato un paio di volte.” Quale fosse non è dato sapere.

Per Abassi alla crisi odierna hanno contribuito fattori interni – “gli interessi dei singoli partiti e i conflitti tra loro” – e fattori esterni: la crisi finanziaria e gli interventi di potenze economiche straniere e istituzioni finanziarie internazionali “che non vogliono la stabilità del paese”. Insieme all’aumento di povertà e disoccupazione, fattore decisivo è stata la disoccupazione dei laureati (“la cosa più amara”) che ha alimentato “rabbia e rancore”.

Tutto questo ha permesso a Kais Saied di sciogliere il parlamento e “fare un discorso populista” che non si sa dove porterà perché “non c’è partecipazione delle forze democratiche e dei partiti” e addirittura i dirigenti delle corporazioni che avevano dato vita al Quartetto “oggi sono nominati dal Presidente”. E’ lui che ha nominato i membri del comitato per il nuovo Dialogo nazionale al quale “il nostro sindacato ha rifiutato di partecipare” indicendo invece uno sciopero nazionale di protesta del pubblico impiego, in corso di svolgimento mentre il Quartetto era riunito sul palco della Bicocca. Per la cronaca, mentre “la potente Ugtt” – l’aggettivo viene da qualche tempo affiancato sistematicamente alla sigla nei media – ha proclamato trionfalmente un 96% di adesioni Kais Saied “manco ne ha parlato, di solito reagisce questa volta niente” è stato il commento informale di un deputato. 

In effetti Kais Saied sta procedendo come un rullo compressore nei confronti delle istituzioni democratiche faticosamente costruite in un decennio, indifferente alle manifestazioni dell’opposizione interna e ai richiami dei partner internazionali. Forse perché “una democrazia va difesa e presidiata” come ricorda garbatamente Schiavi e questo non è avvenuto tempestivamente. Per Mahfoudh i tempi sono cambiati e oggi “i cittadini sono disposti a rinunciare a certi diritti per seguire un discorso populista che antepone il pane alle libertà. In questo senso Kais Saied ha trovato il piatto già cucinato.” Sarebbe interessante individuare chi lo ha cucinato, quel piatto, nel corso dei dieci anni in cui nei media tunisini veniva diffuso quotidianamente il mantra della rivoluzione che “ci ha dato solo la libertà di espressione” e della democrazia che “non si mangia”. 

Schiavi rilancia: “E’ difficile opporsi a questa dittatura morbida, ci sono dei rischi per chi lo fa?” Abassi mette subito le mani avanti: “Resistere contro chi? Non sappiamo ancora il programma, non abbiamo visto nemmeno una legge. Solo a partire da questi dati potremo capire se sta arrivando o meno una dittatura. Certo in tal caso è il dovere di ogni cittadino di opporsi. Noi non abbiamo mai avuto problemi a resistere a regimi autoritari. Ma resistere a favore di chi? Dei partiti che hanno reso la situazione marcia, che hanno fatto il proprio interesse, che non hanno unito il politico e il sociale? Una firma li ha sciolti e a me non dispiace. Il popolo tunisino non sono i partiti ma i giovani. La libertà e la democrazia si sono realizzate ma non la dignità che non esiste senza il pane. Ci vuole un regime democratico al servizio del popolo.”

In sala volano gli applausi poi una studentessa provoca: “Come commentate il progetto di rimuovere il richiamo alla religione nella nuova costituzione?” Risponde Ben Moussa tirando in ballo, non si capisce bene perché, l’IDV, l’Istanza per la Dignità e la Verità”, l’organismo addetto alla giustizia transazionale e al risarcimento delle vittime del regime di Ben Ali. La sua è una requisitoria: “Il nome di questa commissione era immeritato. Era vicina ad Ennahdha. Ha operato in modo selettivo,  ha reso giustizia in alcuni casi ma ne ha trascurati molti altri simili. La IDV non è stata giusta.” La studentessa prova a insistere: “Ma come giudicate la proposta di rimuovere l’islam dalla Costituzione?”

Risponde stavolta Mahfoudh, evasivo: “E’ vero, è trapelata qualche notizia in tal senso … Peraltro l’articolo in questione” – si tratta dell’articolo 1 della Costituzione che recita “La Tunisia è uno stato libero, indipendente e sovrano, l’islam è la sua religione …” –  si trova in molte costituzioni di paesi arabi … Il referendum è consultivo e vede alcuni a favore altri contro e altri ancora che invitano al boicottaggio. Noi non possiamo esprimerci perché non sappiamo cosa contiene il progetto di costituzione. E comunque il referendum potrebbe fallire. Dobbiamo fare riforme economiche e sociali. Alla gente che non trova da mangiare non importa una bella costituzione. Dobbiamo coinvolgere i giovani. Ma restiamo ottimisti. Come dice il grande poeta Abou al Kacem Chebbi: ‘Se il popolo un giorno sceglie la vita il destino dovrà inchinarsi a lui.’”

Altri applausi: il pubblico sembra aver dimenticato le domande inevase. Chi si chiede perché l’opposizione del Quartetto del Nobel all’attuale deriva autoritaria sia arrivata così tardi e appaia così incerta può trovare una risposta nella relazione di Anna Myriam Roccatello, docente alla Bicocca e membro dell’International Center for Transitional Justice, in collegamento da New York. Il suo intervento – che ha preceduto il dibattito con i tre membri del Quartetto – si concludeva con queste parole: “Le dinamiche di contrapposizione [precedenti la rivoluzione] – con una sinistra che nonostante i princìpi ha sostenuto i regimi autocratici e un partito islamico che nonostante le ambizioni ha comunque dimostrato di essere nell’insieme più democratico dei partiti secolari – si sono ripresentate [dopo la rivoluzione] nello stesso modo e le vittime, quelle che hanno subito la repressione, sono oggi identificate con il partito islamico colpevole di non essere riuscito a gestire i problemi politici ed economici … Siamo rientrati nella diatriba politica con le stesse narrazioni nonostante tutto il lavoro fatto.” E’ di questi giorni la notizia che l’Ugtt ha rifiutato sdegnosamente l’invito di Néjib Chebbi, storico leader dell’opposizione laica in passato e dell’opposizione a Kais Saied oggi, ad unire le forze contro la deriva autocratica, perché nel “Front du Salut” da lui capeggiato sono presenti partiti di ispirazione islamica. 

Si rimpiange a questo punto l’assenza del quarto membro – e unica donna – del Quartetto, Wided Bouchamaoui, all’epoca presidente dell’Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato (Utica), la Confindustria tunisina, la quale avrebbe potuto offrire, sul versante dell’economia tunisina, il punto di vista dei ceti produttivi ancorché padronali. Interrogati sui negoziati in corso con il Fmi i tre membri del Quartetto concordano sul fatto che essi vadano rigettati. Mahfoudh: “Negli ultimi due decenni la politica dei donatori e degli enti internazionali è stata quella di concedere prestiti in cambio della nostra autonomia. Oggi invece li danno per salvare regimi o persone. Occorre rinegoziare: gli aggiustamenti strutturali che chiedono non hanno mai portato benefici ai al popolo.” Ancora più radicale Abassi: “Ho incontrato più volte i dirigenti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. La povertà andrà avanzando insieme a questi organismi e la rivoluzione va fatta proprio contro di loro. Essi alimentano solo rabbia e rancore, e non hanno mai intavolato una discussione con il sindacato eccetto in Tunisia perché non trovavano altri interlocutori.” La pensano così anche molti dei giovani presenti in sala. Chiosa quello che ha sollevato la questione, davanti ad un aperitivo post-incontro: “Secondo me non si deve negoziare con il FMI. Impone piani di aggiustamento strutturale con effetti sociali devastanti. O vogliamo riprodurre all’infinito in tutto il mondo i modelli di globalizzazione capitalista?”

A Mahfoudh dopo l’incontro chiedo invece: “Cosa vorreste che faccia l’Europa oggi? Deve sbloccare gli aiuti stanziati per la Tunisia?” – Mahfoudh non è di questo avviso. “Se l’Ue accorda altri fondi sta legittimando Kais Saied, no?” Di parere opposto al Quartetto l’Ue che un po’ di fondi li ha già sbloccati, chiudendo tutti e due gli occhi sulla questione della democrazia e dei diritti umani. Più problematici del Quartetto gli esperti internazionali, soprattutto americani, che raccomandano qualche forma di bilanciamento tra sostegno economico e garanzie democratiche.

Più generoso del Quartetto Ennahdha che non vuole chiedere la sospensione degli aiuti per non infliggere ulteriori sofferenze ad un popolo allo stremo. Sembra insomma che lo storico Quartetto abbia poco da proporre oggi e chissà se il difetto non stava nel manico, in quello strumento del Dialogo nazionale che accanto ai suoi meriti presentava una grande debolezza: quella di consegnare alla società civile il primato su quella politica, con l’idea che nei partiti ci fosse solo marciume e nelle associazioni solo virtù.

A chiusura dell’incontro c’è la performance musicale del violinista Alaa Arsheed, fuggito dalla guerra in Siria. Dal suo strumento il violinista estrae, con virtuosistico pizzicato, vibrazioni di inaspettata intensità che ricordano quelle dell’oud. Lo strumento è il Violino del Mare, fabbricato dai detenuti del carcere di Opera con il legno dei barconi naufragati a Lampedusa, l’isola italiana così vicina alla Tunisia che i figli dei pescatori, talvolta, nelle albe chiare, si immaginano di vederla all’orizzonte.