False accuse e prove inventate, il caso dei pescatori di Anzio come emblema della persecuzione poliziesca della “lotta al terrorismo” 

Alla fine lo Stato pagò, 280 mila euro a el Gamal Al’ Salah Abdel Fattah e Shalabej Magdi Mohammed Ahmed, pescatori di origine egiziana, operanti nel mar Tirreno prospiciente la costa laziale, dal porto di Anzio per la precisione. 

Era il 2009, ed erano passati 7 anni da quel 2002, quando una clamorosa operazione antiterrorismo li aveva inchiodati ad una croce da cui riuscirono a liberarsi solo dopo tre anni e tre gradi di giudizio.

A quel tempo si aspettava l’arrivo di George Bush che avrebbe dovuto venire ad Anzio per commemorare le vittime USA dello sbarco del 1944, durante la seconda guerra mondiale.

Il 30 settembre 2002 l’Italia fu informata di essere nel “mirino del terrorismo islamico”. Erano state trovate diverse prove “oggettive”: mappe con indicazioni degli obiettivi, una vecchia pistola inefficiente e scarica e sette panetti di tritolo poi, più tardi, anche una cintura che fu presentata prima all’opinione pubblica e poi durante il dibattimento processuale come “da kamikaze”.

Una storia che ha avuto del paradossale ed è emblematica del modo in cui in taluni ambienti inquirenti veniva gestita l’aspettativa politica innescata dagli attentati attribuiti ad al Qaida.

Innanzitutto impreparazione, approssimazione e poi, nella fattispecie dei pescatori di Anzio, dimostrati falsi ideologici e materiali, malafede insomma da parte di un manipolo di carabinieri infedeli e poi giustamente puniti.

Una vicenda paradossale e persino grottesca se non fosse che è costata 17 mesi di prigione a persone del tutto innocenti, indennizzate, come abbiamo detto, ma comunque  vittime di un’ingiusta persecuzione solo ed esclusivamente in quanto musulmani ed egiziani.

Probabilmente se fossero stati destinati ad un’estradizione illegale e condotti a Guantanamo non ne avremmo più sentito parlare per anni e anni, ma quelli che avevano montato il caso, volevano incassarne i benefici e andarono a scontrarsi con l’incrollabile determinazione del compianto avvocato Carlo Kemal Corbucci tesa a dimostrare quello di cui era certo: quegli imputati erano innocenti.

Corbucci lo disse subito dopo aver accettato il mandato: “è una montatura, e lo dimostrerò”.

Lo dimostrò infatti. Che uno degli accusati aveva subito e respinto un tentativo di reclutamento da parte di un funzionario dei servizi che con minacce neppure tanto velate ed offrendogli soldi e un’auto voleva farne un informatore. 

Che nel luogo in cui sarebbero stati rinvenuti la pistola e i panetti di tritolo non c’era lo spazio fisico necessario per alloggiarli. Che il tritolo, oltre a non avere gli inneschi necessari per farlo detonare, era probabilmente lo stesso sequestrato in una operazione contro altra criminalità.

Quando la Corte chiese che fossero prodotti i sette panetti che sarebbero stati trovati nella disponibilità dei pescatori e quegli altri sette erano stati distrutti tutti il giorno prima.

Corbucci dimostrò anche che la cintura era un accessorio utile a chi fa il pellegrinaggio islamico e non aveva niente a che vedere con quelle dei kamikaze.

Alla fine una corte in grande disagio nei confronti degli esponenti dell’Arma che avevano condotto le indagini e tutta l’operazione, li assolse da tutti gli addebiti perché “il fatto non sussiste”. 

I giudici dell’Appello vollero dare un colpetto alla botte, per salvar la faccia dei peggiori, diciamo noi e, pur assolvendoli dalle accuse di terrorismo li condannarono a cinque anni per detenzione di esplosivi. La Cassazione infine ristabilì in pieno la sentenza del primo grado: assolti tutti, per tutto.

Altre “operazioni” c’erano state prima e molte altre ce ne furono dopo e in gran parte dei casi il fumo era sempre maggiore dell’arrosto che talvolta proprio non c’era. Nondimeno molte centinaia di musulmani hanno conosciuto le patrie galere e, in numero anche maggiore, hanno subito un’espulsione amministrativa contro la quale è praticamente impossibile il ricorso e scontando spesso una persecuzione anche tornati nei Paesi d’origine. 

La comunità nel suo complesso non è mai stata in grado di attivare strumenti di protezione centralizzati ed efficaci. Anche la tutela legale è stata lasciata nelle mani di professionisti non sempre capaci e leali. Le famiglie si sono dissanguate per sostenere la difesa e poi per cercare di stare vicino al congiunto incarcerato spesso assegnato a penitenziari remoti.

Rievocare pur brevemente l’emblematica vicenda di Anzio a vent’anni di distanza serve più che altro a ricordare quello che accadimenti come questo e uno stillicidio di operazioni antiterrorismo conclusesi in grande maggioranza con l’assoluzione degli imputati indussero nella coscienza diffusa della comunità islamica in Italia.

Fondamentalmente due reazioni opposte ed entrambe foriere di altri problemi invece che risolverli e una terza che rivendico.

Da una parte quelli che si svenarono in dichiarazioni di condanna  e dissociazioni anche quando non c’era nulla da condannare e nulla da cui dissociarsi, cercando di essere più realisti del re e senza tuttavia mai accontentare la furia di quelli che chiedevano quelle condanne e dissociazioni.

Dall’altra quelli che maturarono uno spiccato senso di persecuzione e, vittimizzandosi, si isolarono sempre di più dal contesto socio culturale in cui vivevano  e che in taluni casi permane anche oggi che la sequenza imprevista di Covid-guerra in Ucraina ci ha liberati dalle ricorrenti “minacce” ISIS, create in massima parte da Rita Katz e amplificate ad onta del senso del ridicolo dai media mainstream.

Taluni invece rimasero fermi e dialoganti, amichevoli ma fieri, senza rinnegare nulla dei valori e della tradizione pur nello sforzo di comprendere la realtà intorno e coglierne i segni. Lo fecero, osteggiati dai dissociati e dagli isolati e guardati con sospetto da quasi tutto l’establishment: politici, media e società civile, comunque lo fecero… lo facemmo, rimanemmo saldi.