La sentenza sul caso Cucchi restituisce fiducia nello Stato di diritto e speranza al paese

Il risultato più importante della sentenza di condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi è l’acquisita consapevolezza che, in uno Stato che vuol essere di diritto, non ci sono margini d’illegalità nell’assolvimento del proprio dovere e che l’impunità può essere momentanea ma alla fine crolla e le conseguenze possono essere molto gravi.

Si usa spesso la metafora della mela marcia nel cesto di mele sane. Nel caso Cucchi le mele marce erano parecchie ma grazie a Dio c’era qualche mela sana che, pur non avendo potuto o saputo evitare il danno maggiore, ha comunque fatto in modo che questa tragica vicenda venisse alla luce e giustizia, per quanto minima fosse fatta.

Ci sono voluti anni e la tenacia di Ilaria Cucchi è stata finalmente premiata con una sentenza che lascia un po’ di amaro in bocca anche se, all’inizio, quasi nessuno avrebbe scommesso sull’esito positivo della sua battaglia.

Il Tribunale, scegliendo la preterintenzionalità (cioè, nella fattispecie la non volontà di uccidere) ha voluto essere, un po’ troppo comprensivo con quegli uomini che avevano tradito il loro giuramento e la divisa che indossavano, ma tant’è, come si dice spesso, le sentenze si applicano e non si criticano.

Altra nota dolente è il fatto che di tutti quei medici che non fecero quello che avrebbero potuto e dovuto fare, in base alla deontologia professionale e nel rispetto delle normative del Servizio Pubblico in cui operavano, nessuno abbia pagato.

Difficile credere che nessuno di loro si fosse accorto che le condizioni in cui era ridotto Stefano Cucchi non potevano essere state prodotte da qualcosa di fortuito: erano i segni di un brutale pestaggio.

Confortante è invece la presa di posizione dei vertici dell’Arma che, seppur tardivamente, e per limitare i danni di immagine, hanno deciso che non si poteva più opporre un insano spirito di corpo per difendere l’indifendibile.

Tuttavia il risultato più importante è l’acquisita consapevolezza che in un regime retto da un sistema democratico, in uno Stato che vuol essere di diritto, non ci sono margini d’illegalità nell’assolvimento del proprio dovere d’istituto e che l’impunità può essere momentanea ma alla fine crolla e le conseguenze possono essere molto gravi.

Dopo i fatti della scuola Diaz di Genova e della caserma di Bolzaneto, durante il G8, il selvaggio accanirsi contro giovani inoffensivi e le prove costruite ad arte per giustificare tanta violenza, si erano venuti a creare fondati timori nei confronti di alcuni settori “operativi” della Pubblica Sicurezza.

Questa sentenza restituisce al paese un po’ di speranza e di fiducia, nonostante tutto.

Ora è necessario che il reato di tortura, legge 110 del 14 luglio 2017, sia reso efficace al di là delle fumosità presenti nel testo che lo rendono di difficile applicabilità e che sembrano introdotte per consentire scappatoie legali a coloro che, pubblici ufficiali, dovessero esserne inquisiti.

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