Un’altra vittima di MBS: morto in carcere il fondatore del movimento per i diritti civili in Arabia Saudita

La settimana scorsa si è appreso dell’ennesima vittima del brutale e disumano regime di Mohammed bin Salman. Il principe saudita illuminato – come ce lo presentavano i maggiori mezzi d’informazione nostrani perché apriva per la prima volta in Arabia Saudita cinema e sale per il gioco d’azzardo – ha riempito le prigioni del regno non solo di familiari potenziali concorrenti ma soprattuto di intellettuali e dissidenti politici.

Uomini e donne condannati a morte per aver osato parlare di diritti umani, libertà di opinione, riforme sociali … eppure l’Occidente pronto ad esportare la democrazia a suon di bombe, nulla ha fatto e nemmeno detto in solidarietà a questi prigionieri.

Dobbiamo ritenere allora anche l’ipocrisia occidentale complice della morte del Professore Abdullah al Hamid, tra i fondatori del movimento per i diritti civili e politici in Arabia. In prigione da ben otto anni, il Professore di letteratura contemporanea all’Università Muhammad Bin Saud di Riyadh, condivideva questa sorte con centinaia di intellettuali che – in modo del tutto pacifico – hanno chiesto al regime saudita alcune parziali riforme politiche, qualche concessione ai diritti civili e politici dei sauditi, insomma un po’ di quella libertà negata e repressa da troppo tempo in Arabia saudita, come nella maggior parte degli altri paesi arabi.

Non pochi politici e giornalisti prezzolati italiani avevano salutato il colpo di stato nel 2013 del generale al Sisi in Egitto come il ritorno ad un governo amico dell’Occidente, in flagrante spregio ai valori democratici di cui l’Occidente si erge a paladino. Nel 2016 il rapimento, la tortura e l’assassinio di Giulio Regeni – dottorando italiano all’Università di Cambridge – da parte dei famigerati servizi segreti egiziani, non ha incrinato l’ipocrita narrativa di chi da un lato proclama la difesa di democrazia e diritti umani mentre dall’altro foraggia e sostiene spietati regimi dittatoriali.

A parte qualche timida eccezione, non c’è quindi da aspettarsi che governanti e giullari di corte occidentali e orientali ammettano la verità dinnanzi all’assassinio del Prof. Abdullah al Hamid. D’altro canto, come aspettarselo quando a subire violenze, stupri e torture nelle carceri saudite sono anche decine di giovani donne come Loujain al-Hathloul, colpevoli di chiedere qualche diritto civile e politico nella dittatura amica degli USA e dell’Europa?

Citando Tertuliano, sappiamo che il sangue dei martiri è seme di nuovi credenti: raccogliamo e rilanciamo l’appello al “jihad pacifico” lanciato dal Prof. Abdullah al Hamid e sostenuto da molti altri intellettuali e sapienti musulmani dentro e fuori le carceri dei despoti.

Nelle sue opere (tra cui “La parola è più forte del piombo”) il Prof. al Hamid ha dimostrato come gli insegnamenti islamici contengano espliciti riferimenti non solo a questo tipo di lotta civile, ma addirittura – in alcuni contesti – alla sua superiorità rispetto alla lotta armata.

Come nel nobile versetto: “Non obbedire ai miscredenti e combatti contro di loro con la Parola di Dio con grande sforzo”. (Corano, 25:52). Qui si intende chiaramente la lotta intellettuale tramite il Corano. Il contesto del versetto indica che “il jihad qui è un jihad di parole, non il jihad della spada”, come diceva il compianto Prof. al Hamid.

Ed ancora nel versetto: “O profeta, combatti contro i miscredenti e gli ipocriti e sii severo con loro” (Corano, 9:73). Al Hamid ha commentato a tal proposito, dicendo: “Ed è stato dimostrato che il Messaggero di Dio, che Dio lo benedica e gli conceda la pace, non combatté contro gli ipocriti né mai li uccise. Si è trattato di un jihad civile e pacifico, con pazienza e combattimenti senza armi”.

Diverse sentenze profetiche fanno eco alla Rivelazione, fra cui la più esplicita è il hadith: “Il signore dei martiri è Hamzah ibn Abdul Muttalib, ed un uomo che si leva dinanzi ad un governante ingiusto, gli ordina il bene e lo ammonisce dal persistere nel male e per questo subisce la morte” (narrato da al Hakim); Al-Hamid ha chiosato: “Quindi il Messaggero ha elevato il jihad con la parola al culmine della lotta; e la parola è un tipo di impegno civile”.

La sincerità della fede si misura anche dall’impegno, dal sacrificio che ogni credente è disposto a compiere per difendere la verità, ogni verità, perché il Vero è uno dei Nomi dell’Altissimo.

L’appello divino a questo jihad è stato raccolto da alcuni uomini e donne in ogni parte del mondo: alcuni hanno dato la loro vita per questa lotta, altri soffrono ancora nelle prigioni dei regimi dittatoriali. Ognuno può onorare il loro nobile esempio non soltanto ricordando il nome del Prof. Abdullah al Hamid, ma aderendo all’invito di promuovere la verità, denunciare menzogne e ingiustizie, difendere la nobiltà dell’essere umano, riconoscere Iddio come l’Unico Cui è dovuta assoluta obbedienza.

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