A 100 anni da Sèvres: il trattato che metteva fine all’Impero Ottomano ci spiega molto della Turchia di oggi

A pochi giorni dalla riapertura al culto della moschea di Ayasofya e le tensioni tra Turchia e Grecia sulla delimitazione delle zone economiche esclusive nel Mar di Levante, il 10 agosto scorso, nella stampa turca, si è ricordato ancora una volta il Trattato di Sèvres. Il trattato firmato, appunto, il 10 agosto 1919, nella cittadina francese vicino Parigi, nota per le sue fini porcellane.  

Il delicato trattato sugellava l’armistizio di Moudros, ovvero la resa incondizionata dell’Impero ottomano dopo la Prima Guerra mondiale. Subito dopo, la Francia occupò la Cilicia, gli inglesi presero Mosul e sbarcarono a Samsun, sul Mar Nero.

Le truppe italiane, invece, presero Licia con l’amena cittadina di Marmaris, Antalya e Burdur. Istanbul venne occupata da una spedizione congiunta degli alleati sotto il comando britannico. A Sèvres, poi, il Sultano rinunciava a tutti i diritti di governo sui territori non-turchi e si metteva, così, fine all’idea di unità islamica sotto l’egida del Califfato ottomano.

Sempre secondo il trattato, Izmir e il suo retroterra dovevano essere governati dalla Grecia (che perseguiva il progetto irredentista della Megali Idea) per un periodo di cinque anni al quale avrebbe fatto seguito un plebiscito sull’annessione. Le isole del Dodecaneso e Rodi, poi, vennero affidate all’Italia mentre le rimanenti isole dell’Egeo vennero assegnate alla Grecia. L’Armenia fu riconosciuta come indipendente e comprendeva le province dell’est Anatolia di Trabzon, Erzurum, Bitlis e Van. Istanbul, la Tracia orientale e l’Anatolia interna vennero lasciati agli ottomani con forte limitazioni sulla possibilità di ricostituire un esercito.

Da subito in tutto il paese iniziarono azioni di guerriglia contro le occupazioni. La data ufficiale, però, dell’inizio della Guerra di liberazione nazionale è lo sbarco a Samsun (dove grazie al supporto delle truppe britanniche si stava per annunciare la Repubblica greca del Ponto) di Mustafa Kemal (Atatürk), il 19 maggio 1919.

Mustafa Kemal riorganizzò quello che era rimasto delle truppe ottomane e coordinò la resistenza in Anatolia e la costituzione di un nuovo governo nazionale ad Ankara. Il 29 aprile 1920, infatti, ad Ankara si aprì la Grande Assemblea nazionale che, poi, diresse degli sforzi bellici e sostituì il delegittimato governo ottomano di Istanbul. Il primo fronte della resistenza fu quello orientale guidato da Kazım Karabekir che attaccò le formazioni armene e li costrinse ad accettare la pace di Alessandropoli (2-3 dicembre 1920) che fissava i confini odierni tra Turchia ed Armenia.

I greci, tuttavia, intrapresero un’offensiva nell’ottobre 1920 e si spinsero sempre più vicino ad Ankara. Ma İsmet (İnönü) respinse l’avanzata greca nella prima battaglia di İnönü (6-10 gennaio 1921). L’avanzata greca riprese nell’estate ma fu definitivamente fermata sul fiume Sakarya in settembre e li costrinse ad una precipitosa ritirata. Incalzati dalla Grande Offensiva (Büyük Taarruz), così come viene chiamata nella storiografia turca, i greci furono costretti a lasciare definitivamente l’Anatolia e, il 9 settembre 1922, la bandiera turca tornò a sventolare ad Izmir.

Il ritiro italiano e francese dall’Anatolia, il successo turco e la stanchezza britannica portarono all’armistizio di Mudanya (11 ottobre 1922) e pochi giorni dopo alla consegna ai turchi di Istanbul.

Con la firma del Trattato di Losanna (24 luglio 1924), infine, furono stabiliti i confini attuali della Turchia (fatta eccezione per la provincia di Hatay che divenne turca solo nel 1939). Tuttavia, se questo trattato è ancora ricordato come un trionfo da laici e kemalisti altri lo ricordano come una vittoria mutilata.

Infatti, a Losanna, la Turchia perdeva quasi tutte le isole del Mar Egeo e del Mar di Levante. E alla fine della Seconda Guerra mondiale, l’Italia non restituì il Dodecanneso alla Turchia bensì alla Grecia. Tra queste isole c’è la strategica isola di Castelrosso (Meis in turco e Καστελλόριζο in greco) che dista meno di tre chilometri dalla costa turca e più di 120 chilometri da Rodi. Grazie, però, alla sua sovranità su Castelrosso, oggi, la Grecia pretende di negare l’accesso della Turchia alla zona economica esclusiva nel Mediterraneo orientale, dove ci potrebbero essere importanti giacimenti di gas naturale.

Alla vittoria mutilata va aggiunto il trauma che lo spettro coloniale ha lasciato. Durante gli eventi bellici, infatti, due accordi hanno generato un forte sentimento di paura tra gli intellettuali e l’opinione pubblica turca che forze straniere circondino il paese e congiurino per dividerlo: il Trattato di Sèvres, appunto, e l’accordo segreto Sykes-Picot (16 maggio 1916). Quest’ultimo spartiva il Medio Oriente in zone d’influenza e fu l’inizio dell’annosa questione palestinese: la zone di influenza francese che includeva la Cilicia, la provincia di Adana e la Siria; la zona britannica che includeva l’Iraq settentrionale e la zona che va dal confine iraniano fino alla Palestina. Per garantire l’acquiescenza dei russi, allo Zar veniva concessa gran parte dell’Anatolia orientale (incluso le province turche di Trabzon, Siirt, Erzurum, Bitlis e Van).

Ed è proprio dal Trattato di Sèvres che prende il nome la cosiddetta “sindrome di Sèvres” fenomeno che ho approfondito in passato. Questa sindrome, che indica un cronico complesso di insicurezza, è stata aggravata con il tempo da ulteriori minacce all’unità del paese che hanno fatto seguito alla Seconda Guerra mondiale: le minacce di Stalin di occupare l’Anatolia orientale, la Guerra fredda, l’irredentismo siriano, greco e armeno, l’invasione dell’Iraq, l’ingerenza dell’UE e la War on Terror.

La sindrome di Sèvres è cruciale per capire la politica turca, i suoi continui accenti nazionalisti ed autarchici, e molto spesso reazioni eccessive ad eventi internazionali. Certo, come tutti i traumi, nasce da episodi storici reali. Il problema è che molto spesso ostacola una sana analisi della realtà politica internazionale e soprattutto pregiudica l’autocritica.

Una delle ragioni di questa sindrome è senza dubbio la traumatica caduta dell’Impero. In meno di trent’anni l’Impero passò da un’entità politica multietnica che si estendeva su tre continenti ad un paese a maggioranza turca limitato all’Anatolia e per lungo tempo isolato dal resto del mondo islamico, che invece rimase, per molti anni, sotto il giogo coloniale.

Dagli anni ’70 in poi gli intellettuali islamisti iniziarono a recuperare e idealizzare il passato ottomano, che l’ideologia kemalista aveva voluto dimenticare. Questo, però, portò anche ad atteggiamenti narcisistici che vedevano nella Turchia il naturale erede e, di conseguenza, il legittimo leader del Medio Oriente. Ad ostacolare le aspirazioni turche ci pensarono le grandi potenze europee (con l’aiuto delle minoranze) nella Grande Guerra e, forse… continuano a farlo ancor oggi.

Nelle cerimonie per la riapertura al culto di Ayasofya ma anche nella retorica che accompagna spesso la politica estera turca questo narcisismo così come le paure del nemico (reale od immaginario) riaffiorano sempre e vengono interpretate come voglia di ricostituire il grandioso Impero Ottomano, mentre derivano piuttosto da una debolezza, ovvero dal senso di insicurezza che deriva da Sèvres.