Perché i negazionisti del covid servono ad affermarlo  

Durante l’estate il virus si è mostrato più sensibile del previsto verso il sacrosanto diritto alla vacanza d’agosto, lasciando i corpi liberi di rigenerarsi dalle scorie della quarantena e di accalcarsi in riva al mare, vicini e distanti come solo alla folla riesce. La placida risacca del mare estivo sta però per esser cancellata dalla temuta e preannunciata seconda ondata del contagio, che attende i vacanzieri alle porte delle città. Nel frattempo, nel corso dell’estate la grande narrazione sulla pandemia si è arricchita di una nuova categoria: i negazionisti. Chi sono costoro?

Si tratta di un’etichetta, rispolverata tra le ombre della storia e attaccata ad ogni voce dissenziente, capace di creare man mano una raccapricciante armata Brancaleone, capeggiata da Sgarbi, a cui almeno bisogna riconoscere un’ostinata (anche se a tratti discutibile e ora vacillante) coerenza sin dall’inizio. Al suo fianco, oltre a diversi esponenti della Destra, si intravede il solito Salvini, condannato a seguire in eterno il personale algoritmo del marketing, che in questo momento gli suggerisce che il segreto del consenso sta nel rifiuto della mascherina. Scendendo ancora di livello estetico si arriva ai due eroi delle ultime cronache, la Santanché e Briatore, che è riuscito nella grottesca impresa di diventare il primo negazionista positivo, provocando la contagiosa e silente gioia di virologi e politici integrati. E in fondo sono loro il simbolo dell’unica reale resistenza culturale, che da mesi si è incentrata su un solo punto: l’inalienabile diritto alla movida. Sintomo chiaro di quale sia il centro e il motore di questo nostro tempo. 

Al contempo è evidente come opinioni più autorevoli, sia dal punto di vista medico, politico o sociologico, trovino poco spazio nel dibattito pubblico e non appena ci provano, vengano fagocitati dall’armata negazionista. Chiunque si mostri critico o scettico nei confronti dell’atmosfera di paura o meglio terrore, e delle conseguenti misure politiche calate dall’alto, allora non ha scelta: o entra a far parte del piccolo esercito di pagliacci negazionisti o accetta passivamente lo stato delle cose, senza trovare una rappresentanza pubblica alle proprie opinioni.

D’altronde il meccanismo è consueto e piuttosto antico: una negazione radicale di un fenomeno in sé innegabile diventa infatti ridicola e serve solo a consolidare l’affermazione e ad annientare ogni posizione critica intermedia. In realtà l’etichetta di “negazionisti” non è una novità; grazie alla suo facilità d’uso e consumo, è stata spesso impiegata nel corso della storia per rafforzare la versione ufficiale, che poi resta impressa nei manuali di storia. 

Nel circo dell’informazione mediatica, come al solito l’italico spirito di semplificazione ha agito in fretta. Sono state rimosse le differenze tra chi si ostina a negare l’esistenza del virus, chi ne sminuisce l’impatto sulla salute pubblica e chi si mostra critico contro le politiche di restrizione delle libertà individuali. Allo stesso tempo è stato emarginato dal dibattito pubblico chiunque si mostrasse semplicemente infastidito dalla quantità di potere ceduto alla scienza e dal dover dipendere dalle decisioni figlie di un acronimo, degno di un romanzo distopico: CTS (Comitato Tecnico Scientifico).

Così come si è trovato privo di rappresentanza chiunque avesse delle perplessità dinanzi alla discrepanza tra la concessa libertà di accalcarsi sulle spiagge e la quantità di misure restrittive e distanzianti, immaginate e vanamente dibattute in vista del rientro scolastico. Ad encomio del nostro spirito di immaginazione, basti citarne una minima parte: milioni di banchi monoposto, barriere divisorie tra i banchi, ingressi scaglionati, e infine la più ingegnosa: l’uso di mascherine trasparenti, cosicché ogni contatto umano potrà avere finalmente il suo preservativo. D’altronde che la scuola sia ormai sempre più considerata come problema sociale piuttosto che per le sue problematiche educative, non è una novità; da anni infatti si trova ad indossare le vesti di un precario centro dell’impiego o di un parcheggio dell’infanzia.

Ma l’informazione ufficiale non si limita all’uso costruttivo della negazione, perché al suo interno possiede un robusto esercito affermativo. Degni di particolare interesse sono due apparizioni cicliche: Vasco Rossi, che tesse l’elogio della mascherina e di una vita prudente; Rovazzi che con la sua toccante faccia da bravo ragazzo, racconta la morte del nonno, palesando alla sua età una preoccupante incapacità di elaborazione del lutto.

Al di là della facile ironia sulla qualità del dibattito pubblico nostrano, figlio dell’amoroso matrimonio tra la civiltà della televisione e il mondo di Instagram, il punto è un altro. Non si tratta di negare l’esistenza del virus, ma la possibilità di mettere in dubbio l’entità della sua portata e criticare l’eccessiva insistenza sulle paure di massa e la dilettantesca incapacità a gestirle o la maligna capacità di sfruttarle.  

In fondo una tale psico-pandemia nasce dal semplice terrore dinanzi a qualcosa di sconosciuto, ancora orfano di classificazione; invece un’unica certezza sembra emergere: dopo aver cercato di controllare ogni cosa, l’uomo è sempre più solo e finisce sempre più con l’esser sconosciuto a sé stesso. Untori, colpevoli, medici, mascherine o vaccini saranno solo palliativi per una civiltà che ha tramutato la conoscenza in classificazione.