Ritratti pestiferi: Il Covid e l’età perduta

Ci sono gli anziani con la paura trasformata in terrore e il peso ingiusto di un’inadeguatezza e di una colpa sottaciute. I bambini di fronte a uno strano muro sociale, costruito con la calce della distanza. Gli adolescenti che hanno fatto della loro stanza una trincea in cui la digitazione virtuale diventa metafisica quotidiana. Gli adulti con figli in tenera età, costretti ad amalgamare affetto e pazienza in un tempo di presenza, dilatato come mai prima.

I trentenni single, improvvisamente depauperati dell’unica loro forma di movimento, tradotta nella normalità spagnola del vocabolo: movida. Gli adulti generalmente soli, costretti a fare dell’onanismo una virtù senza possibilità, che forse è l’unica forma di onanismo accettabile. Le coppie cristallizzate che, come sali, si sciolgono in comuni attività, recitate con convinzione sempre minore.

Ma fermiamoci un istante e osserviamoli tutti: nel loro fondo, ognuna di queste età ha visto d’un colpo materializzarsi tutte le potenzialità dei loro anni, addensate intorno a un ruolo sociale, che non è più possibilità ma evidenza.

Per esser più chiari: gli anziani hanno visto trasformarsi la morte da abitudine accettata in scandalo pronunciato e presente.

I bambini in preda alla loro naturale inclinazione al fantastico, hanno assimilato la mascherina e il campionario dei nuovi atteggiamenti in una nuova narrazione animista, certo sofferta, ma pur sempre sganciata dal cappio delle conseguenze e della causa-effetto.

Gli adolescenti, già tesi ad edificare il loro muro di silenzio e distanza, hanno visto cadere sulle loro spalle il peso di un nuovo materiale su cui esercitare finalmente in libertà la scrittura del virtuale. Gli adulti con bambini piccoli hanno assistito allo sgretolarsi della preziosa ovatta intermediaria dei nonni, delle scuole (solo in alcuni luoghi per fortuna) e delle altre famiglie con bambini piccoli.

Insomma si sono trovati per la prima volta davanti all’evidenza, in tutto simile a una sentenza, d’esser genitori e doversi reinventare. I discepoli della movida, privati dei bar e delle piazze, si sono riversati sui social, contemplando le immagini preconfezionate di instagram e registrando freneticamente audio, che ambiscono ad emulare la ruota del pavone, ma che restano intrappolati nei cerchioni di una macchina seduttiva in panne. Gli onanisti, buon per loro, hanno aggiunto la scusa della necessità per dare un senso ritrovato al loro vecchio passatempo. 

Salterà agli occhi la mancanza di un’età, l’unica davvero perduta in questo strano tempo: i ventenni, che in genere corrispondono, grazie ai benefici della democrazia culturale, agli universitari. Sono gli unici che non possono veder accelerarsi un destino scritto nella loro età. Sono gli unici che non possono assecondare un movimento già in atto, sebbene con tutte le contraddizioni che abbiamo visto conseguire. I ventenni da sardine si trovano ad esser salmoni, che ritornano sotto il tetto familiare, con le mani pronte a ricucire il cordone ombelicale, che con fatica ma anche con gioia, stavano strappando.

Ebrezza e condanna della scelta, i ventenni normalmente possono finalmente affacciarsi a spiare oltre i binari già disegnati della vita adolescenziale tra scuola e famiglia.

Peccato che treni quasi vuoti l’abbiano rispediti tra le mura casalinghe, dove a un tratto riemergono il tono infantile della voce o quello adirato del conflitto, mentre delle strane figure si muovono sullo schermo del loro pc, più arbitrarie e monologiche che mai, introducendoli nello sconosciuto mondo accademico. Forse la didattica online in un mondo medievale avrebbe ancora avuto un suo senso, perché il prestigio di apprendere era beneficio di pochi e ci si sarebbe sentiti dei privilegiati nel poter assistere anche a lezioni smaterializzate.

Ma nel mondo di oggi, in cui l’università è diventata un’età evolutiva dell’essere umano, lo studio in sé ha ben poca pregnanza. Persi tra le stesse mura della stanza in cui si sono impegnati a lottare con insegnanti liceali e genitori, oggi vedono proiettata l’ombra dell’università senza il sapore di una nuova stanza da abitare o una città da scoprire, una cucina da improvvisare e rituali quotidiani da riscrivere. Lo scorrere dinamico della loro vita si è interrotto, mettendoli di fronte a un déjà-vu, che non ha il vantaggio del passato, ma solo la pesantezza del presente.

Tra loro c’è chi è nato cittadino, e allora vede continuare la vita adolescenziale, col solo paradosso di trovarsi di fronte a più regole, e di abitare uno scenario urbano più lugubre. C’è chi è nato in provincia o spesso al sud, che è per sua natura sempre provincia di qualcosa, che ha dovuto fare le valigie come un coniuge infedele, e tra qualche lacrima torna a farsi consolare e avvelenare sotto il tetto prima abbandonato.  

Sono proprio loro che agli occhi superficiali dell’opinione pubblica, che sono come quelli di uno strabico durante una partita di ping pong, sembrano i meno colpiti da questa crisi: tanto cosa cambia? Cambia che andare contro natura (sociale) fa meno impressione e tenerezza che spingere la natura stessa al suo parossismo, fatto di contraddizioni. Cambia che un movimento interrotto è un’emorragia invisibile, perciò più pericolosa. Cambia che la qualità di un tempo si misura anche in base allo spazio da abitare, che nel caso dei ventenni, è una prigione con la forma di una culla.