Oscilliamo tra panico e negazione perchè non accettiamo la morte

La nozione di terreno

Nella medicina omeopatica, con la nozione di “Terreno”, si intendono tutte le condizioni di qualsiasi natura, siano esse ambientali, fisiche, chimiche, metereologiche, psicologiche, familiari o sociali che in qualche modo influiscono nello sviluppo dell’oggetto in esame. Questa nozione è tanto ampia che, quando portata alle sue estreme conseguenze, lascia poco o nessuno spazio all’esistenza dell’oggetto stesso, almeno in termini di una sua indipendenza, rimanendo esso di fatto solamente una necessità nosologica ovvero semantica.

La malattia o anche il singolo sintomo, a qualsiasi livello, individuale, sociale, fisico, psicologico, è quello che vediamo, quello che distinguiamo facilmente e che attira la nostra attenzione, ma spesso quello che non si vede, come le radici in un albero, sono più importanti di quello che invece si vede. Comprendere il terreno significa di per se agire sulle cause profonde di qualsivoglia situazione e al contempo la sola vera cura possibile

L’ansia ha un suo terreno, cosi come il coraggio. Il fungo cresce sull’albero caduto perché esso rappresenta per il fungo un ottimo terreno. Potremmo arrivare a dire che quel fungo fa parte di quel terreno in quanto funzionale ad esso. Lo stesso fungo non crescerà sull’albero verdeggiante: non è il suo terreno, non è funzionale a quell’ambiente. 

Quale terreno ha offerto la nostra società alla pandemia? 

Date le premesse ci chiediamo, quale terreno ha offerto la nostra società all’attuale epidemia? Ci siamo già precedentemente soffermati sull’aspetto sindemico dell’attuale situazione del punto di vista epidemiologico, restringeremo ora il nostro campo d’analisi sull’aspetto psicologico di essa.

Non è necessario scomodare il Medioevo e la sua ben nota mentalità così distante dalla nostra, così sintonica con la morte. Ci volle l’epidemia di colera del 1864 perché a Roma i cittadini cedessero di malavoglia e dopo numerose resistenze a seppellire i loro morti nel campo del Verano, le leggi Napoleoniche non furono sufficienti affinché la gente si abituasse a portare la morte lontano dal centro abitato. La morte faceva parte della vita non la si poteva ne la voleva scotomizzare dal proprio panorama. 

Oggi giorno morire in casa propria è un’eccezione, un atto d’amore eccezionale che una famiglia offre al proprio congiunto, quando si può. La morte viene occultata negli ospedali dove essa, per inciso, più spesso e più gravemente diventa agonia, ovvero lotta impari e dolorosa. Ci siamo abituati alla sua assenza all’interno delle nostre case, ci siamo privati di un momento di riflessione importantissimo.

E se prima ci si può permettere di non tollerare il pensiero dell’inevitabile fine, poi si deve cancellare tutto ciò che ce la rammenta come la malattia, la sofferenza, la vecchiaia. Allora è facile vedere materializzarsi un tale numero di ospizi per anziani che forse mai prima nella nostra storia recente e remota: dopo la morte negli ospedali abbiamo rinchiuso in quattro mura anche la vecchiaia in modo da poterla non vedere. E la medicina in un impossibile ossimoro è divenuta estetica, il parto per forza indolore e la malattia impossibile da sopportare.

Panico e negazione: due facce della stessa medaglia 

Su un terreno del genere è bastato rammentare a tutti quello che continuamente è sempre accaduto negli ospedali, nelle terapie intensive, nei pronto soccorso, negli ospizi, e cioè che la morte c’è, la malattia e la sofferenza anche, per non parlare della vecchiaia, per mandare tutto e tutti in tilt, perché il panico si impadronisse del mondo, nessuno escluso. Il resto è storia nota e viene da se. 

Lungi da sminuire quello che è accaduto e che sta accadendo, ma chi vive nella paura come chi nega l’evidenza sono le due facce della stessa medaglia con la sola differenza che i secondi non ce la fanno a vedere quello che non possono accettare. In effetti in molti oscillano in una sorta di bipolarismo tra questi due stati. È noto come anche nel medioevo il panico e la disperazione si impadronissero delle città chiuse a causa della peste, ma era la peste e pochi vi sfuggivano, è una questione di misura e proporzioni.

Come mai piangiamo i vecchi che abbiamo lasciato che morissero prima di morire nelle case di riposo?

Forse perché oggi non possiamo non vederli? Come mai solo ora ci interessiamo e ci indigniamo per la scarsità dei posti in terapia intensiva quando gente morta in attesa di un posto c’è sempre stata? Siamo divenuti più umani o perché siamo costretti a vedere quello che prima volevamo ignorare? La cronaca è stata sempre piena di storie del genere.  

La morte come vaccino

Diversi anni fa mi è accaduto di avere il triste compito di parlare come medico di un centro di rianimazione con un signore svedese, per comunicargli l’imminente decesso della moglie con la quale si trovava pochi giorni prima in vacanza nel nostro paese. Dopo i miei primi giri di parole per rendere la cosa, nei limiti del possibile, più morbida, la nettezza con la quale egli mi chiese di essere chiaro prima e il suo atteggiamento fiero e fermo di fronte alla dolorosa notizia dopo, mi spiegano forse oggi del perché la Svezia abbia potuto permettersi delle strategie sociali differenti rispetto a quelle intraprese dal resto del mondo.

Abbiamo rimosso la morte e chiediamo alla medicina la vita eterna

 

L’unico vaccino contro la paura ed il panico o anche contro la negazione di questa o di altre vicissitudini che potrebbero investire la nostra società, sarà quello di riportare la morte un po’ più all’interno delle nostre esistenze come è naturale che sia. Questa epidemia ci ha svelato come una società che dimentica la morte è una società fragile, non solo perché in fondo non vive, ma perché sarà pronta ad accettare tutto financo a non vivere a causa della paura di essa.