Maradona: la morte del carisma

Maradona è morto. Una strana frase, un’evidenza a cui da tempo ci si era abituati col pensiero. Una fine logica di un percorso illuminato da luci ad intermittenza. Poi accade e l’assenza si fa presenza. Tutt’a un tratto usciamo da una pigrizia  mentale che si era abituata a spiare il suo corpo maltrattato dalla mancanza di volontà e dall’incedere degli anni. L’anima infine si libera dal corpo per riportarti diretto alla fisicità delle sue azioni e ricongiungersi alla mitologia, già delineata in vita.   

Sarebbe facile inseguire la solita equazione retorica, intessuta sulla geniale sregolatezza, sull’alternanza di destino tra caduta e successo, per fare pace col bene sportivo e neutralizzare il male umano.

Macché! Maradona è tutt’altro e in tutta umiltà solo un popolo può raccontarlo. Maradona era, è e sarà una scritta sulle maglie azzurre indossate da uno dei tanti bambini obesi che girano per i vicoli di Napoli. Segno dell’impossibile, tocco di utopia.  

E a chi dirà: era solo un grande calciatore! Figlio di un calcio che non esiste più. Un tossico, un cattivo esempio…basterà rispondere domandando: che cosa lasceranno i vostri passi dietro di sé? Lui ha scritto coi piedi in mezzo a gente che zoppica senza sapere dove dirigere il cammino. E poi la mitologia lo aveva già accolto in vita tra le sue braccia. Cosa avrebbe dovuto fare? Godersi i soldi per prolungare all’infinito una sterile festa da re nudo? Oppure fare il commentatore in uno studio televisivo dove spente marionette giocano a fare gli intellettuali sportivi? E che avrebbe dovuto raccontare? Avrebbe potuto esprimersi solo in rutti o in silenzi. Oppure dirigente nel potere della mafia calcistica?

Con spirito terzomondista, avrebbe trovato il modo per finanziare solo gli umiliati del mondo, compreso quello calcistico, con in prima fila il Sudamerica e poi l’Africa. E il resto dei soldi l’avrebbe dato a piene mani al Dioniso della droga, organizzando feste infinite, provando a togliersi quella maledetta malinconia dallo sguardo. A fare l’allenatore ci ha provato, in squadre che cercavano un po’ di pubblicità, oppure in una memorabile esperienza estetica, quando ha diretto la nazionale argentina, abbigliato come un gitano in un matrimonio di Kusturica, provando a battezzare il suo discepolo Messi; stessa classe forse, ma sguardo, parole e lineamenti automatici, che non avranno mai discepoli dietro di sé. E perché? Il carisma! Questa l’unica risposta accettabile. Il carisma è quel raro filo che lega l’alto e il basso, che anticipa parole e azioni, per arrivare agli altri, creando non la  psicologica fiducia, ma un sentimento di fede. Incondizionata, immanente fede che ti spinge a seguirlo nelle movenze da ballerino calcistico, o in quelle di eroe popolare, oppure di lottatore ideologico intrappolato in sfide donchisciottesche al sistema del potere.

Il carisma, tratto unico, che non crea ammiratori ma solo discepoli. Il carisma di uno sguardo nostalgico che si è formato negli stenti di una vita grama di provincia e di un corpo affamato di vita, sempre sospesa tra costruzione e distruzione, filiazione e annichilimento. Da non confondere col carisma di un leader politico o intellettuale. In questo carisma non c’è direzione, la vittoria è nobile solo se non reiterata dalla assuefazione e ci sono solo istanti, mai programmatici, mai razionali.  

Maradona non era una semplice icona, una star o una divinità del calcio. Non poteva influenzarti o dettare mode, né nella grazia né nella disgrazia. Pochi osavano soltanto sussurrare, giocando in strada o al parco, di provare la finta o la punizione di Maradona. No, non poteva esser un modello nella grazia, perché era impossibile riflettersi nelle sue gesta, movenze tra il ballerino e l’atleta, con un volto filmico. E neanche poteva esser modello nella disgrazia, percorsa in labirinti di droga, prostituzione, camorra… Emularlo avrebbe significato non superare i trent’anni. Non era un’immagine nel mondo dell’immagine, come accade oggi. Perché non era assimilabile alla retorica del marchio, Maradona in fondo può rappresentare solo sé stesso, perciò non è per definizione sostituibile. 

Come tutti i fenomeni sportivi, era capace di coincidere nell’animalità del gesto tecnico, ma allo stesso tempo lasciava dietro di sé una traccia di pensiero, sempre rivolto all’istante seguente. Il pensiero dell’atleta, quando è sublime, non è quello dell’intellettuale sempre rivolto al passato, ma quello dell’animale sempre volto in avanti, verso la preda da ingannare. E in quest’arte lui riusciva ad esser beffardo e imprevedibile come nessuno. 

Maradona a Napoli era, è e sempre sarà il ritmo di un calendario, una presenza sensoriale. Scandiva il primo e il dopo della celebrazione della Domenica, si impregnava nell’olfatto come l’odore del ragù sui fornelli. E poi il giorno dopo diventava caffè, aroma dell’arabica, colore scuro, consistenza densa da bere mentre parlavi delle gesta del giorno precedente e di quelle che sarebbero venute.

Il caffè si imbeveva di liquore per presentarsi sotto forma di un piccolo cilindro dal nome di Caffé Borghetti, che bevevi a stomaco vuoto, colmando l’attesa di ore e ore sugli spalti dello stadio. Ecco Maradona resterà in tutti questi sapori del suo popolo adottivo, che lo ha inglobato nello scandire della sua mitologia quotidiana, fatta di precarietà, speranza e un innato senso dell’iperbole. 

Maradona è così connaturato al tempo napoletano che ancora oggi i suoi anni sono un riferimento: Ai tempi di Maradona la città…sì, ma dopo Maradona… e perché prima? Risibile attitudine, certo, per menti razionali ma non per chi ha annusato i vicoli di Napoli. Quei vicoli dove di racconto in racconto la sua immagine resterà per sempre associata ad altri due tasselli della mitologia contemporanea.

L’età d’oro partenopea: con Maradona che eccitava gli animi, Pino Daniele che li sublimava e Massimo Troisi che che li purificava attraverso ironia e catarsi. Destino speculare quello di Maradona e Pino Daniele, morti alla stessa età, ma soprattutto morti (artisticamente) in vita quando hanno deciso di lasciare l’unica lingua e gli unici riflettori adeguati al loro canto: Napoli. Stesso destino che ha scelto di risparmiare Troisi, quando la morte lo ha colto prima della distanza che inevitabile si sarebbe scavata. 

E da Napoli rimbalzi a Buenos Aires, lo stesso azzurro nella bandiera, una musica perennemente malinconica, vita di cinema e letteratura, indolenza e mitomania quotidiana, frenesia dell’immaginario, reciprocità di immigrazione, due stadi (La Bombonera e il San Paolo) come templi in cui cercare, pregare e illudere una catarsi; niente a che vedere con luoghi dal vuoto intrattenimento. E lui ad assurgere a trait d’union del fantastico per mettere due popoli così lontani di fronte allo stesso specchio.

Maradona è morto, la sua anima vive in una maglia azzurra sporca di sugo, in un caffè bevuto pigramente e in un caffé liquoroso tra spalti dove la parola scudetto resterà un remoto orizzonte da immaginare, da tessere per tramandare il racconto orale di una leggenda lontana, ma sempre presente.