La mascherina come estetica disciplinare 

Prima di uscire si afferrano giacca o borsa. Le mani nelle tasche sfiorano con dimestichezza portafogli, cellulare, chiavi. Il conforto di avere tutto il necessario con sé, eppure si avverte la strana sensazione che qualcosa manchi. Oddio la mascherina! Assurta ormai ad automatismo, un riflesso delle mani e della mente, la mascherina non riesce però fino in fondo ad omologare chi la indossa.

C’è chi con slancio di eleganza la predilige di stoffa, riuscendo perfino ad integrarla nell’estetica del proprio abbigliamento, al contrario di chi si affida all’antiestetico imbuto della sua versione più tecnica, dall’acronimo degno di una loggia massonica. La maggior parte però si rifugia nell’universale modello chirurgico. Ma anche qui con differenti declinazioni di personalità. I ligi ed integrati la indossano in maniera medica e magistrale non appena varcano l’uscio di casa; sono gli unici ad obbedire a un criterio prettamente sanitario.

Passiamo agli La mascherina come estetica disciplinare altri. Alcuni scoprono il naso, lasciando la bocca fasciata a mo’ di ostaggio, molti la abbassano trasformandola in bavaglino o in collare per poi alzarla nevroticamente al primo sguardo sanzionatorio, gli sbarazzini la mettono al gomito, commutandola in una sorta di stemma OMS, un po’ più in giù rispetto ad antichi e neri simboli, evocanti una doppia S.

C’è chi la tiene in tasca in mezzo a polvere, briciole e perfino tabacco per poi all’occorrenza tirarla fuori e infine è possibile perfino imbattersi in qualche talento che, con virtuoso senso del grottesco, riesce a cavarne una sorta di bandana o di benda. In attesa di nuove mode sanitarie che dall’America promuovono il necessario uso della doppia mascherina, sponsorizzata da A. Fauci in prima persona.

In ogni caso è chiaro che la mascherina da semplice strumento di protezione individuale è evoluta in simbolo di appartenenza collettiva: il segno di un’estetica disciplinare.

Ne è controprova il passo fiero e canzonatorio dei pochi che osano girare in città senza indossarla. Quando lo sguardo li incrocia, sembrano dei rivoluzionari contro cui si erge un duplice sentimento di odio e rispetto.   

Se ogni segno visibile sul corpo umano è destinato a divenire simbolo, quale significato si cela allora dietro la mascherina? Al di là del senso letterale, corrispondente all’abitare in tempi pandemici, se ne annida uno profondo e di remote origini: l’identificazione della vita con la salute. Scontata constatazione, la cui apparenza vela un ribaltamento di fondo. La salute concepita non come semplice e necessaria condizione per il funzionamento vitale di un organismo, ma come fine e salvezza (nella sua letterale etimologia latina) dell’uomo. Quando è iniziata allora l’identificazione tra vita e salute?

Sono anni che la comunità sovranazionale, articolata in influenti entità come l’Oms, benedice  modelli e concrete politiche volte alla promozione della salute e del benessere. L’elogio del fitness si fonda su una logica che classifica l’esistere in base a criteri di efficienza, produttività e funzionalità, tutti residui dell’antica metafora evoluzionista dell’organicismo, sposa ideale sia del comunismo che del capitalismo.

Una volta esiliati dalla terra lo sguardo sacro e la visione metafisica, l’esistenza si è svuotata di qualunque senso capace di sospingerla oltre sé stessa, così non ha avuto altra scelta: sacralizzare la propria fisica consistenza. La vita col suo volto in salute è diventata un capitale da preservare a tutti i costi per non capitolare di fronte alla mancanza di senso. 

Un nuovo sacrificio ha avuto inizio: sull’altare è finito il moto contraddittorio della vita stessa. L’esistenza ha iniziato ad esser igienizzata da tutte le sue impurità. Sradicare peli dal corpo, eliminare le rughe, estirpare i vizi (tanto per fare un esempio: è stato già stabilito che entro pochi anni il fumo sarà vietato anche all’aperto), bruciare e rimuovere il corpo dei morti.

Si va avverando il latente sogno di avvicinarsi sempre più alla consistenza levigata dell’immagine, alla perfezione di ciò che non può esser toccato, quindi compromesso dalla malattia. Il corpo ci ricorda ad ogni istante la corruzione, con il tempo che incide sulla carne, affiancato dal desiderio che scardina ogni presunta purezza; mentre l’immagine ha il dono di saper lavarsi da qualsiasi contraddizione, è perfetta e gode di immortale salute. 

Ecco che la mascherina non si mostra più come una semplice ed efficace protezione dalla malattia, ma è anche un segno di aderenza all’empireo della salute, che da idea si è trasformata nel frattempo in ideologia. Un reperto simbolico della civiltà della salute da preservare per ogni futura interpretazione, mentre la memoria riporta a un recente passato, a quando stupefatti e disgustati osservavamo gruppi di turisti asiatici velati da mascherine e automatico distanziamento sociale.

La memoria scava e restituisce anche il ricordo di alcuni coetanei, che si autodefinivano igienisti, mentre si lavavano nevroticamente le mani ed evitavano contatti ravvicinati col prossimo. Sbeffeggiati e derisi come dei paranoici disadattati, chi l’avrebbe mai immaginato che i turisti asiatici e gli igienisti si sarebbero trasformati nel giro di pochi anni in lucidi visionari?