Anche la scelta degli abiti è una responsabilità del musulmano

Essere musulmano è un’azione. Intendo, essere ben consapevoli che la spiritualità non è cosa astratta, ma attiene strettamente alla nostra vita pratica quotidiana. E così come cerchiamo di mantenere un comportamento onorevole e dignitoso in dunya e nelle relazioni sociali, abbiamo anche un adab nei riguardi della sfera spirituale.

L’abito è un buon esempio per capire questo concetto. 

Durante il sacro mese di Ramadan possiamo conoscerci meglio e migliorarci, abbiamo l’opportunità di portare particolare attenzione ai nostri comportamenti rituali senza nemmeno doverci rinunciare, ma solo spostarli nell’arco delle 24 ore per un mese. Questo periodo ci mette davanti uno specchio in cui guardare, attraverso una distanza consapevole, tutte le nostre abitudini meccaniche, le nostre nevrosi, le nostre coazioni, fissazioni, illusioni, le resistenze ai nostri automatismi caratteriali che ci mantengono in comode consuetudini – a prescindere dalla nostra soddisfazione -. 

Le astensioni, e astinenze, che caratterizzano questo mese hanno l’effetto di staccare la spina al nostro ego. E questo soltanto la Misericordia dell’Intelligenza d’Amore poteva inventarlo per noi! 

In questo periodo specialmente, possiamo porre attenzione anche al criterio con cui scegliamo gli abiti da indossare che, non soltanto dovrebbe seguire la sunna esteriore, quella formale, cioè quella che indica le zone del corpo che è bene che restino coperte (perché anche in questa formalità, in realtà, c’è un codice che dialoga con il mondo spirituale) ma anche farci consapevoli del valore energetico di cui l’abito si intride

Oltre a portare attenzione alle aree di corpo coperto, dovremmo, infatti, fare molta attenzione ai materiali di cui sono composti gli abiti che indossiamo, cioè se le fibre che ci mettiamo addosso sono naturali o sintetiche.

Quando, dodici anni fa, con il mio socio, il biologo e designer Salman Raheel, abbiamo deciso di fondare un marchio di abiti, ispirato al rispetto della sunna tradotta per la nostra attualità,  abiti fatti a mano, esclusivamente con tessuti da fibre naturali, uno per uno, perché portassero dentro l’energia di mani umane che lavorano, e non delle macchine, il nostro obiettivo era rendere consapevoli i fratelli e le sorelle nell’Islam della responsabilità ecologica e del valore energetico che comportano le nostre scelte. Avremmo voluto prendercene cura, vestirli con abiti sani. Musulmani attuali al presente, provenienti da una tradizione eterna che è sempre presente e attuale. Un manifesto di consapevolezza.

Invece, intanto che la nostra intenzione si concentrava sugli abiti sunna, e su come volevamo produrli, ci siamo resi conto che quello era il design del momento e il pubblico pronto a capire questo lavoro e questo messaggio, non era la comunità islamica, a cui il nostro lavoro era destinato, ma un pubblico altro, molto più concentrato sul design di ricerca e di attualità sperimentale.

Così, ci siamo ritrovati naturalmente trasferiti dentro quello che al tempo era l’Olimpo del movimento avant garde, il più sperimentale e aderente e puntuale all’attualità, tra marchi come Maurizio Altieri, Thamanyah di Ahmed Abdelrahman, Devoa, Ziggy Chen, Inaisce, Biek Verstappen, Isabella Stefanelli. 

Questo era il dress code del pubblico di ricerca.

Shalwar con il cavallo molto basso, gilet accollati, camicie lunghe, gonne lunghe a pieghe traverse, casacche sciancrate ma comode, giubbe e accessori, come guanti senza dita per  coprire i polsi ma lasciare libere le mani, e copricapo da donna come cappucci che tengono coperti, oltre ai capelli, il collo e il decolté.  E, soprattutto, volumi ampi che non strizzano il corpo fisico, ma che abbracciano anche il nostro corpo energetico e i corpi sottili.

Inoltre, questo design specifico, per di più rifinito a taglio vivo, su tessuti naturali, ispidi e ruvidi, per tutte le sue asperità fisiologiche della fibra e per la cardatura e tessitura artigianale, stava anticipando la rappresentazione di un’epoca in cui non ci sarebbe stato più molto sfarzo e comfort di cui compiacersi. Stava preannunciato una realtà, quella che il pubblico sta vedendo soltanto ora, dopo che una pandemia  globale e le imminenti recessioni per la guerra in atto, insieme, hanno innescato un processo di importanti cambiamenti nei nostri stili di vita.

Perché il design, quando testimonia la verità del reale – e non è adulatore del business, e tanto meno di un’immagine studiata per modellare la società secondo un’agenda – questo fa, interpreta il vento che sente arrivare in lontananza.

Il nostro concetto di abiti sunna traslato nella realtà attuale era esattamente ciò che il segmento moda avant garde stava cercando in quel momento. 

Paradossale!  Ciò fu fonte di grande dispiacere e frustrazione per noi. Fu un grande sconforto dover prendere atto che i fratelli e le sorelle non erano pronti a recepire questi valori e principi. 

E ben presto ne abbiamo capito il motivo.

Le gente musulmana è rimasta indietro in fatto di cultura e educazione rispetto alle scelte ecologiche. Fa scelte quotidiane senza porsi il problema se comporteranno conseguenze dannose per il pianeta e per se stessi. E questo è davvero schizofrenia, perché il Corano ci educa e ci insegna ad avere rispetto della salute nostra e dell’ambiente e della natura, ci ricorda di essere responsabili di questo pianeta,  del quale siamo stati messi a custodia, di amare gli animali, le piante, i minerali e a condividere le risorse del pianeta con tutti gli altri esseri, visibili e invisibili.

Giusto prima del Covid ho accompagnato una delegazione in viaggio di donne orientali, mogli e figlie di Imam, a fare shopping a Roma, e non potevo credere ai miei occhi! Nessuna di queste donne, sebbene la provenienza da famiglie osservanti, si è preoccupata di leggere le etichette apposte sui capi che sceglievano. Hanno guardato i colori, la brillantezza, il pattern delle stoffe, e immancabilmente tutti i loro acquisti erano spazzatura, veleno per loro stesse e per il pianeta, senza nemmeno porsi il problema. Quel giorno mi sono sentita sconfitta dal poliestere 100%. 

Non riflettiamo mai abbastanza quanto le fibre sintetiche danneggino i inquinino la nostra Madre Terra e la nostra salute, a diversi livelli.

Staremmo tutto il giorno dentro un sacco di plastica? E soprattutto pregheremmo dentro un sacco di plastica? Faremmo la doccia con l’impermeabile? Chiediamocelo, e portiamo a consapevolezza questa domanda, perché è quello che facciamo.

Gli abiti di materiale sintetico, sono plastica che, oltre ad inquinare il Pianeta, soffoca il nostro corpo e ottunde la sensibilità che il nostro corpo sottile ha di poter fare esperienza delle benedizioni che scendono su di noi. 

Quindi, almeno, a Ramadan, poniamoci attenzione e cerchiamo di modificare i nostri comportamenti. Semplicemente perché è adesso che viviamo.