Il terrore della propria morte invoca lo Stato di polizia

Un’immagine resta vivida e potente in questa statica attesa di giorni e giorni di epidemica quarantena: il corteo militare di carri funebri che trasporta altrove le salme dei contagiati della provincia di Bergamo. I veicoli scorrono lasciandoci una punta di commozione e di sconforto. Un sentimento di pietà, che andrebbe rispettato con una preghiera o un sacro silenzio, che in fondo sono la stessa cosa, e non con la chiacchiera mediatica.

Ma andiamo oltre la superficie, per vedere che in realtà a pochi tra noi importa davvero di quei morti, del dramma di quelle bare. Quel che viene davvero risvegliata è la propria vulnerabilità. Perché l’incedere di quella processione entra come una fitta nei nostri corpi, percorre le brevi vie della coscienza fisica della propria mortalità, che si tramuta poi in uno sguardo militare dai balconi o in strada, rivolto a chiunque si prenda la semplice libertà di una passeggiata o una corsa.

Lo sguardo popolare si sta foderando di una divisa verde militare, pronta a odiare e denunciare chi col suo corpo si arrischia a propagare il terrore. Ognuno di noi è diventato un potenziale terrorista e intanto chi è ammalato di terrore si affida inerme all’autorità del potere.

La potenza di quell’immagine sta proprio nel riuscire a condensare il simbolico rapporto tra morte, terrore e potere. È evidente come ogni forma di potere impieghi da sempre la paura come strumento di legittimazione. Che sia rivolta verso la povertà, la criminalità, o perfino lo straniero, la paura è infatti il più manipolabile dei sentimenti, proprio grazie al suo elevato grado di astrazione e irrealtà.

In tempi di normalità è sufficiente la paura per mantenere un ordine accettabile e conservare lo status quo. Infatti per un po’ di tempo siamo stati condizionati dal pericolo degli attentati terroristici o dell’invasione dei migranti, sentimenti molto funzionali perché consentivano allo stesso tempo di definirsi, opponendosi ad un nemico virtuale, o per lo più inventato. Ma in tempi eccezionali la paura deve trasformarsi in terrore. E lo fa quando l’idea generica della morte, diventa quella della propria morte.

In tempi di terrore lo Stato finalmente torna paternalistico! Come un cattivo padre, di solito assente, distratto, incline al vizio e alla distrazione, che un giorno, al cospetto di una situazione eccezionale, torna presente in famiglia.

Proferisce parole affettuose, promesse e prende decisioni d’un colpo risolute, che non ammettono replica, pena la punizione. Il figlio, sebbene soffocato dal ritorno del padre, si sente quasi lusingato, protetto, così si lascia andare all’insolita presenza di autoritaria sorveglianza Allora si dimenticano d’un colpo i tagli al sistema sanitario, la cattiva gestione della cosa pubblica, la disparità e la troppa autonomia tra regioni, perché in fondo si dice: il padre è tornato a fare il padre.

In cambio di protezione allora aumentano i controlli e diminuiscono le libere uscite. La minaccia delle punizioni non è sempre efficace, così ci si spinge fino ad usare avanzate tecniche di spionaggio (vedi i droni…). Nel frattempo per rafforzare l’autorità riscoperta, il padre tira in ballo l’unità della famiglia, il benessere della comunità sovraordinato a quello dei singoli. L’invocata unità nazionale torna ad esser celebrata sotto il segno dei tricolori tornati a sventolare. Al punto che un emigrato, tornato in patria dopo anni, camminando per le strade della città, colte da bandiere, silenzio e desolazione, potrebbe immaginare l’Italia impegnata nella finale della Coppa del Mondo.

A dire il vero, la retorica dell’unità legata alla paura, mi spaventa più della pandemia. Se uno di questi giorni, con tono solenne, ci venisse imposto di isolare gli anziani, di denunciare ogni persona che si soffia il naso, di annientare i contagiosi, perché sarebbe la sola soluzione per salvarci, temo che molti tra noi obbedirebbero. L’importante è allontanare la presenza della morte nei nostri respiri. Ma attenzione, perché la stessa furia erotica e rassicurante incarnata ora dal nostro premier, a lungo termine facilmente si potrà trasformare in rabbia e violenza. Il figlio tornerà a ribellarsi al padre.

Ma nel frattempo cosa fanno i figli-cittadini?

Si vedono uomini aggrappati ai loro cani per una mezz’ora di libertà, persone sole al volante con la faccia ingabbiata nella mascherina, come se la bocca asintomatica potesse contagiare il resto del corpo. Gli indignati, ancora più connessi degli integrati, che a seconda dell’ultima informazione trovata, si alternano tra negazionismo (in fondo il virus è innocuo) e complottismo, con la speranza di individuare un nemico al di là del virus.

Gli integrati, appesi a tabelle e statistiche dei morti, divenute ormai calendario quotidiani degli umori. I contagi e le morti impennano, ci sentiamo mortali, il numero scende, si fa un bel respiro e ci si sente meno fragili, più giovani. Un costante respiro dal movimento a fisarmonica che palesa e respinge il manifestarsi della propria mortalità.

Infine gli anziani, costretti all’isolamento, alla stasi e al bombardamento mediatico. In molti si ammaleranno di terrore e solitudine, prima dell’infezione virale.

Uno Stato responsabile avrebbe imposto loro almeno un’ora di passeggiata quotidiana, la censura della televisione del dolore e la possibilità di incontrare, con le dovute precauzioni, i propri cari.

Viene da chiedersi infine, cosa accadrà tra qualche mese quando la curva dei contagi sarà arginata, i corpi usciti deboli e infiacchiti dalle proprie case saranno inerti prede del primo virus che passa, i contagi riprenderanno lentamente, ma magari gli ospedali potranno gestire meglio i nuovi malati, mentre la salute psicologica di molti sarà molto più precaria. Ma quello allo Stato padre non importerà realmente più di tanto…

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