L’epidemia come politica nell’analisi del filosofo Giorgio Agamben

“Possiamo chiamare “biosicurezza” il dispositivo di governo che risulta dalla congiunzione fra la nuova religione della salute e il potere statale col suo stato di eccezione. Esso è probabilmente il più efficace fra quanto la storia dell’Occidente abbia finora conosciuto. L’esperienza ha mostrato infatti che una volta che in questione sia una minaccia alla salute gli uomini sembrano disposti ad accettare limitazioni della libertà che non si erano mai sognati di poter tollerare, né durante le due guerre mondiali né sotto le dittature totalitarie. Lo stato di eccezione, che è stato prolungato fino al 31 gennaio 2021, sarà ricordato come la più lunga sospensione della legalità nella storia del Paese, attuata senza che né i cittadini né, soprattutto, le istituzioni deputate abbiano avuto nulla da obiettare.” 

“La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il Paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita.”

(Giorgio Agamben, dall’introduzione di A che punto siamo? L’epidemia come politica)

“Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla- tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata. “

(Giorgio Agamben, di A che punto siamo? L’epidemia come politica.  Riflessioni sulla peste, 27 marzo 2020)

A causa del virus originatosi in Cina, comunemente conosciuto come Covid 19, il 2020 per l’Italia e per il mondo intero è stato un anno horribilis. Le malattie nella storia umana sono sempre state presenti; hanno accompagnato il cammino degli esseri umani; ne sono state si può dire compagne fedeli. Le nostre città spesso nascondono ossari in cui giacciono i resti mortali di migliaia di persone su cui camminiamo ignari.

 A Genova, la mia città, i giardini dell’Acquasola sono uno dei rari polmoni verdi cittadini; si tratta di un parco non molto esteso, dove in questo nostro tempo di grandi solitudini trovano un po’ di spazio per i giochi pochi bimbi invariabilmente accompagnati dai genitori, o dove vanno a scorrazzare, anch’essi rigorosamente accompagnati, cani amati spesso più dei bimbi.

I giardini in questione sorgono sopra una serie di cunicoli, esplorati negli anni 80 da speleologhi urbani, dove giacciono migliaia di scheletri che appartengono alle vittime di una terribile pestilenza che colpì la città alla metà del diciassettesimo secolo; pestilenza che pare abbia ucciso, secondo gli studi storici più aggiornati, ben 70.000 dei 100.000 abitanti che all’epoca la città contava. L’Acquasola, come la chiamano i genovesi, non è certo l’unico luogo che nasconde scheletri di povere vittime di pestilenze a Genova come nel resto d’ Italia. 

L’epidemia sicuramente più devastante e mortale che si ricordi è stata senza dubbio quella che fu impropriamente chiamata influenza spagnola – la Spagna non c’entrava nulla-, nata dove di preciso ancora non sappiamo, ma con buona probabilità la sua origine è da cercarsi nelle trincee di quell’inumano massacro che fu la guerra più idiota e sanguinosa che l’umanità ricordi: la prima guerra mondiale. Il 4 novembre dovrebbe essere proclamato il lutto nazionale, ma questo è un altro discorso.

A differenza delle pestilenze seicentesche o, come in quella narrata dal Boccaccio nel suo trecentesco Decamerone, quando un’epidemia impiegava anni per diffondersi sulle rotte commerciali e sul cammino degli eserciti, ai tempi della Spagnola, più o meno fra la fine del 1918 e il 1920, il mondo era diventato un posto dove le malattie non tardavano molto a farsi strada e nel giro di poco tempo, qualche mese, non ci fu più angolo della terra- ad eccezione di qualche remota isola sperduta nell’atlantico- esente dal flagello. 

Alla fine della prima guerra mondiale la medicina e la biologia ignoravano ancora l’esistenza di organismi patogeni infinitamente piccoli in grado di sottrarsi all’indagine del microscopio ma capaci di colonizzare l’intero corpo umano causando danni devastanti e la morte. Tuttavia, come in questi giorni ci è stato spesso ricordato, anche allora si impose un po’ ovunque l’uso della mascherina, che avrebbe dovuto proteggere dalla trasmissione di quel bacillo che erroneamente si supponeva fosse responsabile dell’infezione. 

Oggi sappiamo che l’influenza detta Spagnola fu la diretta responsabile della morte di decine di milioni di esseri umani; gli studi più recenti parlano di un numero indefinito che si situa fra i 50 e i 100 milioni di vittime. La cifra esatta anche solo approssimata non si saprà mai. Chi può sapere, alle condizioni dell’epoca, quante furono esattamente le vittime indiane, cinesi, sudamericane o africane? Territori vastissimi, spesso densamente popolati, dove ogni censimento serio e affidabile delle morti era di fatto impensabile. 

Sicuramente l’influenza Spagnola causò un numero di vittime enorme, un numero neppure lontanamente paragonabile a quello delle vittime conseguenza dell’infezione da Covid 19. Nonostante questo, il mondo non si fermò.

L’economia non subì crisi e rallentamenti fino al 1929 quando la catastrofe economica globale fu causata da ragioni che nulla avevano a che fare con la malattia. 

Lungo il corso del ventesimo secolo altre emergenze sanitarie si sono succedute: ricordiamo il vaiolo, il colera, la polio che spezzò la vita di milioni di bambini condannandoli al polmone d’acciaio o, nella migliore delle ipotesi, ad handicap invalidanti e permanenti. E le forme influenzali, innumerevoli e variegate, sono arrivate nel corso degli anni alle nostre latitudini con impressionante regolarità fino all’inizio del nuovo millennio. 

Quella di Agamben, filosofo piuttosto noto e di fama indiscussa, è stata una delle rare voci che si sono discostate dal coro unanime che ha accompagnato la pandemia dal suo insorgere ad oggi; coro unanime, a reti e a testate giornalistiche unificate, così privo di dissonanze che, almeno sull’argomento, nulla può invidiare alla Corea di Kim Jong-un.

Se ci fu un tempo in cui non era raro che Agamben ricevesse inviti per partecipare a talk show televisivi e a scrivere articoli, quello che ha scritto sul tema Covid ha fatto di lui un paria mediatico di cui semplicemente si evita di parlare, e che non vedremo probabilmente più comparire nelle reti televisive che vanno per la maggiore. Per la parte del “negazionista”, si preferiscono personaggi alla Vittorio Sgarbi, più folkloristici, più capaci di accendere lo share e soprattutto meno impegnativi sul piano delle argomentazioni. 

Significativo il fatto che uno degli articoli inseriti in un agile pamphlet che raccoglie articoli e interviste di Agamben sull’argomento pandemia Covid 19 intitolato A che punto siamo? pubblicato dalla casa editrice Quodlibet, e precisamente un articolo scritto il 20 marzo 2020, sia stato rifiutato dal Corriere della Sera dopo che la stessa testata giornalistica l’aveva richiesto.

Solo con la pandemia causata dal Covid 19 le cose sono radicalmente cambiate. La crisi causata dal morbo non si è limitata a coinvolgere, come sempre era accaduto nella storia umana, l’ambito sanitario, le strutture deputate a far fronte alla malattia: gli ospedali, i lazzaretti, gli addetti ai lavori, i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari, i monatti, lasciando alla gente comune sostanzialmente il compito di condurre la vita di sempre; di lavorare e di vivere normalmente, magari stando attenti nel limite del possibile a non esporsi al contagio. I romani dicevano: navigare necesse est, vivere non necesse.

Certo anche nelle epidemie dei secoli passati si istituivano blocchi e cinture sanitarie, ma quello che è accaduto col Covid 19 è qualcosa di fondamentalmente nuovo; un cambiamento che ha coinvolto ogni ambito della società, ogni suo ganglio e soprattutto ha costretto paesi come l’Italia a un radicale mutamento del rapporto cittadino-istituzioni, cittadino-potere, imponendo quel “distanziamento sociale” che, secondo quanto si sostiene nel testo in questione, ha un significato profondo che diventerà sempre più nuovo rapporto fra gli esseri umani, supportato sostanzialmente da una tecnologia digitale sempre più sofisticata e pervasiva. Questo è quanto Giorgio Agamben cerca di analizzare e di dirci nel suo pamphlet. 

Il nostro mondo, questo mondo fatto di relazioni nel quale viviamo e siamo immersi, si è trovato improvvisamente in una situazione inimmaginabile. Con provvedimenti di governo straordinari, sul modello cinese, cioè sul modello di uno stato tra i più occhiuti e autoritari del pianeta, l’Italia intera è stata messa agli arresti domiciliari senza che, come ci fa notare Agamben, né persone né istituzioni deputate avessero nulla da dire al riguardo.

E sempre secondo il filosofo romano, l’Italia intera, o quantomeno la grande maggioranza degli italiani, ha accolto senza porsi alcun problema, ma quasi con riconoscenza, questa chiusura, definita “Lockdown”, facendo ancora una volta ricorso a un termine inglese, quell’inglese che pare dia un valore aggiunto alle cose che si potrebbero tranquillamente dire in italiano.

Senza che quasi ce ne accorgessimo, a partire dal diciannovesimo secolo, l’Occidente ha visto nascere un nuovo culto, una nuova religione; una religione che sta avendo facilmente ragione delle altre due religioni tradizionalmente dominanti nel nostro mondo, cioè il Cristianesimo e il Capitalismo: la scienza.

Un culto in piena regola, con i suoi sacerdoti e i suoi fedeli, con le sue funzioni e le sue eresie. Che nella medicina ha assunto un carattere gnostico, proclamando un dio della luce, non la salute, ma la guarigione, e un dio delle tenebre, che ha nei i virus e nei microbi i suoi agenti. 

Il Cristianesimo, che in Italia è presente da sempre nella variante cattolica, non ha praticamente avuto nulla da ridire di fronte a provvedimenti che ne hanno di fatto sospeso il culto; dimenticando, ci fa notare Agamben che Francesco, il santo di cui l’attuale papa porta il nome, abbracciava i lebbrosi; dimenticando che la visita agli infermi è una delle sette opere di carità corporale; dimenticando che i sacramenti sono validi solo in presenza.

E anche il Capitalismo, quella religione che nella produzione, nel mercato, nella finanza e nel prestito ad interesse ha le sue colonne portanti, è venuto a patti con la Scienza e con la sua branca medica; accettando una politica di chiusura che ha gravemente danneggiato la produzione e il mercato e che minaccia di scatenare una crisi socio-economica fra le più severe della storia umana.

Come ci rammenta il libro del filosofo, sembra che, con l’arrivo dell’epidemia, e con la conseguente sospensione delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione e con l’esautoramento di fatto del parlamento, facendo ricorso ad uno stato di eccezione permanente attraverso la promulgazione degli ormai famigerati DPCM, nei giorni di febbraio-marzo del 2020, il Leviatano di Hobbes, il mitico mostro che gli esseri umani pongono a tutela e difesa della loro nuda vita, in cambio della loro totale sottomissione, sia risorto in tutta la sua sinistra potenza.