Prove di dialogo italiano sulla Tunisia, ma le posizioni restano distanti

Alla vigilia del 14 gennaio – la data che per dieci anni è stata l’anniversario della rivoluzione tunisina – si parla di Tunisia negli ovattati saloni del Circolo degli Esteri: metà spazio istituzionale e metà club informale degli ambienti diplomatici.

Organizzatrice ufficiale della tavola rotonda intitolata “Tunisia: ieri, oggi e domani”, la rivista di geopolitica Eastwest; a fare gli onori di casa il suo direttore Giuseppe Scognamiglio, un passato di diplomatico e uno sguardo non banale sulle relazioni tra l’Europa e ciò che avviene ai suoi confini ed oltre.

Anima propulsiva dell’incontro, tuttavia – per unanime riconoscimento – Imen Ben Mohamed, volto noto e apprezzato dalla diplomazia italiana che ha avuto occasione di conoscerla, anche per la sua perfetta padronanza dell’italiano, durante i suoi due mandati nel parlamento post-rivoluzione. Partecipavano, per i tunisini, due parlamentari – Fathi Ayadi, del partito Ennahdha, e Oussama Khlifi, del partito Kalb Tunès, – e l’ex ministra per la Donna e la famiglia, Sihem Badi, del partito CPR, esule in Francia sotto Ben Ali e “nuovamente oggi”. Un piccolo nucleo di fuoriusciti a confronto, per la parte italiana, con il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova e l’europarlamentare Andrea Cozzolino.

Tantissima la buona volontà e l’impegno reciproco, diverse le posizioni. Da parte italiana si parla di “processo democratico in pausa” (Scognamiglio) da parte tunisina di “colpo di stato” (Ayadi). Da parte italiana si considera la roadmap di Kais Saied (riscrittura della Costituzione e referendum online tra tre mesi, elezioni a fine anno) un “importante passo avanti” (Della Vedova); da parte tunisina una operazione di facciata per il consolidamento del putsch (Khlifi).

Da parte italiana il problema sta esclusivamente nei tempi: “Il ritorno alla normalità non è veloce come si pensava – pensavamo fosse questione di un mese, ci rendiamo conto che ci vorrà un po’ di più” (Scognamiglio). Non la vedono così i politici tunisini: “Kais Saied sta solo cercando di prendere tempo: vuole creare le condizioni per restare al potere vent’anni” dichiara Sihem Badi in un breve colloquio dopo l’incontro. 

Al netto delle dichiarazioni generali di princìpio (sul “Mediterraneo che ci unisce”, sul “non concentrarsi solo ad Est), degli incoraggiamenti  (alla “ripresa del processo politico-istituzionale”) e degli auspici in “elezioni inclusive che coinvolgano tutti”), l’intervento di Della Vedova in apertura mette le carte in tavola con chiarezza: diamo a Kais Saied una possibilità. A quali condizioni? La salvaguardia dei diritti umani non pare così essenziale.

Quando la moderatrice, la brava Azzurra Meringolo,  chiede a Sihem Badi se la società civile è preoccupata sul fronte dei diritti umani la risposta è un “Certo che sì. I diritti sono già stati colpiti. La Tunisia non è più un paese democratico.”  E’ pensabile uno di quei compromessi per i quali i tunisini sono giustamente famosi? No, risponde Khlifi, Saied è un putschista, in Tunisia c’è una dittatura, la sola soluzione in questo contesto è l’opposizione. “Di dialogo si potrà parlare quando non correremo il rischio di finire davanti alla Corte marziale per questo scambio di idee con i nostri amici italiani.”

Le testimonianze – Ayadi ricorda le incarcerazioni arbitararie, i confini di polizia, il deferimento di civili a tribunali militari per reati d’opinione – non sembrano scalfire questa posizione che Andrea Cozzolino riprende in un lungo e appassionato intervento: “Abbiamo scelto il dialogo con Kais Saied.” Rivendica come un successo delle istituzioni europee (“avevamo posto due condizioni alle quali il Presidente in parte ha risposto”) la recente nomina di un governo e la previsione di elezioni a fine anno e poco importa che l’opposizione consideri il governo un fantoccio privo di poteri e le elezioni un progetto ispirato al Libro verde di Gheddafi.

L’europarlamentare pone tuttavia una domanda con la quale partiti, società civile e studiosi dovranno probabilmente confrontarsi a lungo: “Perché siamo arrivati a questo punto senza reazione popolare?”  La sua risposta infatti – la delegittimazione delle istituzioni – per quanto largamente condivisa è solo un punto di partenza.

Al di là di questa possibile convergenza sulla diagnosi della crisi tunisina, c’è una radicale divergenza sulla terapia. I tunisini partecipanti al dibattito ripetono che “colpo di stato e dittatura non possono essere le soluzioni ai problemi”, governanti e costituzioni si possono cambiare con strumenti democratici.

Nel suo intervento conclusivo, Imen Ben Mohamed, pur ringraziando calorosamente Cozzolino per il suo impegno, pur condividendo la necessità per i partiti di riformarsi e per la società civile di democratizzarsi, afferma con forza che “Kais Saied non è il salvatore della Tunisia, non è nemmeno un innovatore, non è il portatore di un progetto democratico. Ci porterà indietro di decenni, non risolverà nessuno dei problemi – economici, sociali, sanitari – nei quali il paese si sta dibattendo. Kais Saied non è la soluzione, è il problema”. 

Peccato che il problema degli uni potrebbe essere la soluzione degli altri come dimostra la vecchia preferenza europea per regimi autoritari sull’altra sponda del Mediterraneo. Le interdipendenze reciproche complicano le cose. “Chiediamo solo all’Europa di non appoggiare Kais Saied”  risponde Sihem Badi quando le chiedo come vede il ruolo dell’Ue.“Certo, apprezziamo un aiuto sul piano economico per uscire da questa crisi ancora più economica che politica ma vogliamo la nostra sovranità. La politica interna deve essere il popolo a sceglierla.” Resta il dubbio che i due ambiti, l’economico e il politico, non siano così facilmente scindibili.